«Nessuno può fermare una ragazza che sogna».
È su questa frase che si chiude l’opera prima di Delphine e Muriel Coulin, film ispirato a una storia realmente accaduta, che le due sorelle hanno deciso di re-ambientare nella loro città d’origine, Lorient; all’apparenza un piccolo borgo affacciato sull’Atlantico, in realtà una gabbia che confina la vita entro prospettive sociali tanto incerte quanto monotone e fuori dalla quale il vento soffia ribelle e le spiagge sono distese sterminate.
È in quella frase che si concentra l’essenza di una pellicola che parla, sì, di maternità, ma è soprattutto un bel ritratto dell’adolescenza, capace di incarnarne la bellezza e l’incertezza, attraverso la performance convincente, genuina ed essenziale di un cast di giovani interpreti. Una fotografia reale e sincera di quel periodo della vita che sfugge continuamente alle nostre mani, nonostante si abbia la sensazione di poterne avere il controllo, e dove si è insieme troppo grandi e troppo piccoli: «A diciassette anni non si è maturi, si sogna e si ha un’energia enorme».
È l’età in cui Julia, Florence, Clémentine e Mathilde (e, come loro, molte altre compagne di liceo) decidono di rimanere incinte per solidarietà nei confronti della loro amica Camille, tradita da un preservativo rotto. Ma anche perché «così ci sarà qualcuno che ci amerà incondizionatamente. Per sempre». Quello che agli occhi degli adulti e delle istituzioni appare un gesto insensato, impossibile da ricondurre a un perché, per le cinque amiche acquista il sapore della libertà e della ribellione. Un deliberato atto di protesta rispetto a un futuro che pare già scritto – e che invece loro decidono di sovvertire – e ai genitori, sempre più estranei e assenti dalle loro vite. Il tutto in nome di un legame che sembra indistruttibile e spronate dalla netta sensazione che ogni cosa sia realmente possibile e meravigliosa: «insieme, solo noi, ci aiuteremo e non dovremo più sentire “rifai il letto e lava i piatti”».
Un’utopia. Che prima o poi dovrà fare i conti con la realtà. C’è una scena che prelude alla fine del sogno, quando le cinque amiche, giocando a calcio sulla spiaggia, lanciano il pallone su un falò. La palla infuocata diventa simbolo di un meccanismo che ormai si è fatto troppo incandescente e non si riesce più a domare. Perché si può far finta di non avere paura e di essere perfettamente consapevoli delle proprie azioni, ma quando ci si rende conto che a essere messa in gioco è la vita stessa, quella propria e quella che si porta in grembo, diventa impossibile controllare la propria fragilità e solitudine.
Lo sguardo della macchina da presa non vuole né analizzare né comprendere né giudicare. Solo farsi testimone dei corpi e delle esistenze di queste piccole donne, attraverso sequenze brevi, primissimi piani, dettagli ingranditi, alternando profondi silenzi negli interni domestici a cori cantati a squarciagola in macchina. Un quadro che non lascia spazio agli uomini e ai genitori, volutamente ignorati, e dove alla fine poco importa se le ragazze hanno ragione o torto. Queste eroine hanno un merito, sembrano volerci dire le registe: si interrogano sul mondo che hanno “ereditato” e, pur a modo loro, cercano di dare un senso alla loro esistenza.
Leggi la trama e guarda il trailer del film
Mi piace
Il sincero e realistico ritratto dell’adolescenza che emerge, grazie anche all’interpretazione essenziale e genuina delle giovani interpreti (molte all’esordio davanti alla macchina da presa).
Non mi piace
Il passaggio in cui le amiche decidono di rimanere incinte si risolve troppo frettolosamente.
Consigliato a chi
Vuole godersi una pellicola al confine tra sguardo documentario e favola adolescenziale
Voto
4/5