7 sconosciuti al El Royale
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7 sconosciuti al El Royale

7 sconosciuti al El Royale

Chris Hemsworth in 7 sconosciuti al El Royale di Drew Goddard
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (3)
Sceneggiatura (3)
Fotografia (3)
Montaggio (4)
Colonna sonora (3.5)

The Hateful Seven, ovvero i sette sconosciuti che si ritrovano al El Royale, motel ambizioso e un po’ fatiscente che si trova tra le foreste al confine (esattamente al confine, una striscia rossa lo attraversa per segnare il passaggio tra i due stati) tra Nevada e California, da qualche parte attorno al lago Tahoe. Tra loro ci sono un prete, un venditore, una cantante e una hippie: tutti hanno un segreto e nessuno è chi dice di essere.

Lunghe sequenze statiche modulate dai dialoghi, montaggio a puzzle, divisione in capitoli, agnizioni via flashback, brusche esplosioni di violenza grafica: il secondo lungometraggio di Drew Goddard è quasi un ricalco del cinema di Tarantino. Il confronto è utile perché per rimbalzo dimostra di nuovo quanto sia politicamente potente – sia nell’iconografia che nei testi – la filmografia del regista di Django Unchained, quanto cioè oltrepassi il proprio contenuto ludico e la propria cinefilia, che sono sempre le prime qualità a venirgli riconosciute. È come se Sette sconosciuti al El Royale ne fosse una ricostruzione puntuale ma meccanica, un falso d’autore.

Perché di Goddard si può dire quasi tutto – e bene – tranne che sia un artista. La sensazione è simile a quella che lasciava Quella casa nel bosco, c’è un superbo controllo del dispositivo scenico e narrativo, il gioco è talmente esplicito che pare quasi di osservare la cassa aperta di un orologio, tutti gli ingranaggi esposti: il fascino è inevitabile, ma parliamo comunque di tecnica, grande artigianato. Così certi pezzi si incastrano che è una meraviglia, il rumore è bellissimo, e il primo terzo di film (due ore e venti il totale) solletica nello spettatore una curiosità di grana grossa che è l’ambizione di qualunque giallista. Così, ugualmente, a racconto svolto e volume rimesso in libreria, latita un po’ il senso dell’operazione.

A voler proprio fare uno sforzo, siamo nel 1969: Nixon sproloquia, la guerra in Vietnam si gonfia di soldati americani (è l’anno dello sforzo maggiore), santoni più o meno convincenti radunano attorno a sé piccole sacche di violenza, consenso e disponibilità sessuale. I costumi slittano e la paranoia è linguaggio comune: di ogni cosa e ogni persona è istintivo cercare un secondo livello di lettura, la posizione morale sotto le apparenze sociali, le cimici dietro le cornici. In questa prospettiva il motel El Royale, doppio fin dalla sua geografia, pieno di corridoi, stanze nascoste e falsi specchi, è una buona metafora e un posto in cui è piacevole smarrire le coordinate.

Poi metteteci pure che ci sono grandi personaggi, donne forti che si ribellano al destino, uomini spregevoli ma affascinanti; altri tormentati, o coraggiosi ma alla fine sfigati.
Quindi perché lamentarsi? In fondo è esattamente quello che speravamo dalla prima volta che abbiamo visto il trailer, un frullato di cinema anni ’90 e un enigma da risolvere con calma.

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