Joe (Joaquin Phoenix) è un veterano di guerra che si occupa della madre anziana e fa fronte quotidianamente agli spettri di un passato ingombrante, di un vissuto lontano e indicibile. Il suo mestiere è lottare contro il traffico di donne finalizzato al loro sfruttamento sessuale, ma quando si ritroverà a dover salvare una ragazzina da un giro di prostituzione e pedofilia la situazione sfuggirà di mano, e con essa un’incontrollabile e inarrestabile spirale di violenza.
La cineasta scozzese Lynne Ramsay, regista di Ratcatcher – Acchiappatopi, Morvern Callar e …e ora parliamo di Kevin, continua col percorso di identificazione e digressione al centro del suo cinema, avaro di punti di fuga, di fulcri stabili, di facili e rasserenati equilibri. Il titolo iniziale del film, You Were Never Really Here, al quale è stato preferito per il lancio europeo il più ingannevole ma innegabilmente più spendibile A Beautiful Day (solare ma non campato in aria, alla luce del finale), tradisce proprio quest’essenza sfuggente: essere qui, ma anche altrove, in un processo di alienazione e negazione dove non si è mai centrati, mai se stessi, mai per davvero reali.
L’immagine più emblematica del film, dopotutto, è quella riflessa di uno specchio spezzato, che rovescia non solo l’icona deformata del protagonista ma anche l’intero senso di un viaggio doloroso (con chiari ma interlocutori echi a Taxi Driver), che mira sempre alla frattura e mai alla ricomposizione. Il modello del film di Scorsese è un convitato di pietra inevitabile, dato lo spunto narrativo di partenza, ma in sostanza non c’entra nulla.
Perché il film della Ramsey, a partire dal romanzo di Jonathan Ames e pur con tutti i limiti di un approccio estremo anche se mai pretestuoso, evita qualsiasi forma di citazione e di postmodernismo riportando tutto, semmai, alla realtà e ai suoi echi, riducendola al grumo di alienazione e manie suicide del personaggio di Joaquin Phoenix. Alle prese con una delle interpretazioni più fisiche e brutali della sua carriera, con tanto di muscoli martorizzati e cicatrici tanto più profonde quanto più invisibili, di movimenti asettici e barcollanti ancorati a bisogni e paure primarie.
L’attore, con grande coraggio, porta il film tutto sulle sue spalle: la radicalità essenziale del suo corpo, catatonico ed epilettico, gonfiato e abbrutito come quello di un orso solitario, è la stessa di un film che inanella incubi come fossero cocci aguzzi di un’unità frantumata. Con un approccio disteso, crudo, mai realmente onirico.
Perché la confusione della realtà proposta da A Beautiful Day, in concorso all’ultimo Festival di Cannes dove ha vinto come miglior attore e miglior sceneggiatura (un dato curioso, per un film così impressionista, di quasi totale regia) è sempre interna alla materialità delle cose. Un dato contestuale al mondo, uno squarcio di verità: la sequenza più coreografata e tarantiniana, non a caso, coincide con la ripresa di una telecamera a circuito chiuso.
Nell’autenticità spigolosa di quest’approccio sta, probabilmente, la preziosità del cinema di Lynne Ramsey, che qui usa la colonna sonora del chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood (un compositore per il cinema sempre più indispensabile) come una vaga traccia ambientale ancor prima che sonora. Insegue il flashback e il lampo, dilata la violenza come una partitura musicale anche se non di rado lavora troppo d’accumulo, disseminando indizi ma affievolendo il senso e la pregnanza dell’esperienza.
Un esperimento che rimane, tuttavia, un viaggio quasi esclusivamente audiovisivo, animato da un coraggio che, come conferma l’epilogo, mostra una fede incrollabile per le immagini e il loro valore tanto distensivo e terapeutico quanto allucinatorio e traumatico.
Mi piace: l’interesse per la frammentazione da parte della regista, che ricorre a coraggiose scelte stilistiche e di montaggio
Non mi piace: il lavorare necessariamente d’accumulo, che rende il tutto troppo irrisolto sul piano non solo narrativo
Consigliato a: chi cerca un cinema arthouse capace di affrontare controcorrente il cinema di genere, di spiazzare e sedurre muovendosi nel territorio della violenza, della sgradevolezza, del trauma
© RIPRODUZIONE RISERVATA