Roma violenta. Sembra ambientata alle falde dei poliziotteschi seventies, il crudo romanzo criminale che Sollima, e chi meglio di lui, gira tra le pieghe nascoste di un drappello duro e puro di legionari della Celere. C’è tanta violenza, urlata senza filtro, nei fatti, nelle manganellate e nell’aria, con l’ atmosfera cupa di disfacimento che aleggia all’ ombra dell’ Italia quanto mai irrisolta e tormentata dei nostri giorni recentissimi. Non un western contemporaneo, giammai, quando mancano le stereotipate linee di demarcazione tra cattivi ed eroi, ma un tutti contro tutti, perché tutti hanno qualcosa da nascondere ai tribunali e a Dio. E da raccontare. La macchina da presa sferraglia spedita, cambiando continuamente prospettiva, sballottata dalla precisa voglia di non stare da nessuna delle sponde del guado, ma di affogare tutto nella stessa acqua melmosa.
Guardie e ladri, fasci e clandestini, tifosi e celerini, ce n’è per tutti, o forse per nessuno. Dimenticata la maschera di talco conciliante delle fiction celebrative sui belloni in divisa, ma anche l’arrembaggio sinistroide dei reportage su Genova, Sollima si colloca nel mezzo, dopo aver mandato giù a memoria il libro genitore di Bonini, Repubblichino per amore di testata.
Qui siamo oltre Genova, è l’ Italia del dopo Diaz, la “macelleria messicana” che cambiò la Storia e le storie dei nostri paladini con le divise ammaccate. Ci sono buoni attori, tirati a lucido per l’occasione, perché ottima è la verosimiglianza del quintetto di fasci da sfascio Favino, Giallini, Nigro, Sartoretti e Diele, e c’è una sceneggiatura che scorre a dovere, bombardata da una colonna sonora modernissima e semmai invadente.
E poi c’è tanta fiction, sebbene il proposito dichiarato dal regista fosse dimenticare fasti e movenze del suo recentissimo romanzo criminale raccontato al piccolo schermo. Perché è fiction l’incastonarsi nel fiume principale della narrazione, di una flotta di micro-storie affluenti, fatte di figli ribelli, mogli cubane deluse e mamme sfrattate, che da un lato umanizzano la scena, dall’altro banalizzano e distolgono.
Non è un film che farà epoca, perché ancora troppo legato a cordoni ombelicali politici di difficile soluzione, ma di certo è un racconto coraggiosamente contagioso, che della nostra epoca mette bene a (ferro e) fuoco l’odio sociale, nei giorni vicinissimi fatti di Raciti ed Alemanno. L’ abbandono dei cliché da film di genere è fortunatamente abbastanza celere, anche fuori dai facili giochi di parola.
Buona la caratterizzazione muscolare e psicologica dei celerini, “bastardi” nei modi e perché figli di nessuno, con una citazione doverosa per il giovane Domenico Diele. Il suo Spina è forse il personaggio più riuscito, che restituisce pubblica sicurezza al pubblico, piazzandosi quasi come una microcamera a circuito chiuso, all’interno del marciume di un sistema, con gli stessi occhi sbigottiti dello spettatore, e poche intenzioni di sporcarsi la divisa e la coscienza.
Chi cerca epica o solenni ballate di piombo stile gangster-movie, perderà presto la bussola e le speranze, non ci sono grandi concessioni all’ estetica della violenza, semmai alle sue ragioni. Che affondano il manganello e le radici in uno Stato, in senso istituzionale ed emotivo, di calma apparente, in cui tutto scorre, ma fuori dal proprio alveo.