“Non so che farmene dei cardini dell’universo. Ciascuna vita è costellata da decisioni che in troppi sono decisi a vanificare. La libertà è un concetto molto spesso affiancato a un gesto. I brandelli del mio ego hanno requisito tutte le cicatrici rimaste”. Una nuova strada intellettuale si sta facendo strada nel mondo benestante alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. A tracciare il nuovo quadro, il maestro Sigmund Freud (Viggo Mortensen) e il discepolo Carl Gustav Jung (Michael Fassbender). Un pensiero in principio comune, da cui il più giovane medico col tempo si discosta per approdare a convinzioni più filosofiche e non solo legate alla dimensione sessuale. Il divario aumenta fino a lasciarli su due mondi lontani. Jung racconta i propri sogni, Freud non ne fa parola per preservare la propria autorità. In mezzo a loro c’è anche la classe sociale a tenerli separati, ben evidenziata con una punta di malinconia durante il lungo viaggio in nave che porterà i due psicologi negli Stati Uniti. E poi c’è lei. Una paziente di Jung. Sabina Spielrein (Keira Knightley), poi diventata medico anch’essa. Decisa a scoprire, regredire, sfidare e indagare. Con “A dangerous method” (2011), film presentato in anteprima alla 68° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, David Cronenberg (La mosca, A history of violence, Eastern promises), all’ennesima e convincente prova cinematografica insieme al suo attore feticcio (Mortensen), si addentra in un mondo di domande che colpiscono oggetti tra le ombre. Le porte scricchiolano, e si aprono. Ognuno dei protagonisti, a modo suo, mette un piede in una carezzevole oscurità tra inconscio, ego e verità da accettare (accertare). C’è un’altra figura fondamentale. Un altro percorso. Ha a che fare con la società. Otto Gross (un barbuto Vincent Cassel), mandato da Freud a Jung. La sua massima “Il piacere è semplicissimo finché non decidiamo di complicarlo” colpisce. Confonde. Sguscia. È davvero così ovvio seguire la direzione che conduce alla libertà? Viviamo davvero in un mondo dove bisogna compiere qualcosa di “imperdonabile” per continuare a vivere? Forse la vita non ha bisogno di preghiere, menzioni o chissà quale perdono. L’impermeabile monotonia delle nostre convinzioni ci lascia sempre più l’anima immune alle ferite.
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