Esordio registico dedicato alla “war addiction”, non dal punto di vista d’un soldato com’in “The Hurt Locker” (Bigelow, 2008) e senza sciacallismi da fotoreporter com’in “The Bang Bang Club” (Silver, 2010), però con le stesse contraddizioni da narcisismo autodistruttivo della protagonista. Inoltre, grazie a un articolo di Luca Bottura su Repubblica, dal 9 luglio 2018 possiamo definire un film di questo tipo “radical shit”. “I sacrifici richiesti ai giornalisti in prima linea per portare alla luce del mondo la barbarie e la crudeltà” è una frase schifosamente retorica. Si prende più coscienza di “The horror! The horror!” nella belligeranza d’ogni giorno che negli scenari delle più atroci guerre militari, ma per il “radical shit” si deve discutere nel proprio salotto bene del “malum mundi” secondo la categoria arendtiana della “banalità del male” e non secondo quella di “quotidianità del male” espressa da Teresa di Lisieux.
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