“Ad Astra” (Ad Astra, 2019) è il settimo lungometraggio del regista-sceneggiatore di New York James Gray.
Film di un incontro, film di un viaggio, film di un ricordo, film di un passato, film di un figlio. Un incipit che piace, il resto non infiamma e i finali leziosi con epilogo che parrebbe inutile.
Una pellicola fantascientifica che vuole essere umana e persuasiva. Ma il colpo buono non fa centro e non riesce. Una regia e una sceneggiatura che non si incontrano. Una voglia di fare un ‘gran film’ è in ritardo in molto e l’intimismo con l’infinito non propone situazioni che coinvolgono appieno. Vuole essere ‘entrante’ e ‘pieno’ ma va fuori strada e qualche volta con frenate e allunghi.
Il regista cerca risposte epocali che non ci sono, lo spettatore cerca un film ben costruito che non c’è. E alcune sequenze come la parte finale incongrue o forse troppo prevedibili. Come alcuni personaggi sminuiti e/o dimenticati nei loro cliché.
Un film che vorrebbe essere evocativo, forse troppo, dove l’esclusione del passato (l’abbandono si lascia come una foto sgualcita) avviene attraverso un ritorno (o il ritorno, se si preferisce) normale e non certo inaspettato. E la mano che attraversa lo schermo per (ri)prendere il figlio a casa.
Un fluttuare attraverso le basi dei pianeti, per scoprire le stesse cose conosciute, conoscendo o rincontrando chi non vedi o solo senti dove la voce di un padre fa da apertura a continuare. Il dialogo è ristretto con gli altri solo misto e implosivo con se stesso.
L’astronauta Roy McBride cerca il suo passato o meglio la voce del suo presente. Quella di suo padre disperso ai confini del Sistema Solare che non vede da trent’anni. Clifford McBride è un astronauta di vecchia data conosciuto da tutti per la sua ricerca spasmodica di quello che non è umano. Un vero incontro.
E il progetto ‘Lima’ è il suo solo scopo. Non conosce altro e ha dimenticato tutto (affetti familiari compresi) dopo oltre vent’anni. Il film si dipana in questo lungo viaggio di andata (tre quarti di durata) e ritorno (tra incipit e epilogo) con varianti minime e ingerenze poco consone (la scena del ‘mostro’ scimmia sembra inutile o quasi forviante) tra pensieri fuori onda e racconto (a minimo movimento labbra di Roy) allo spettatore come un cronista ameno e quasi distaccato. Perché nonostante il tutto e l’ansia (del personaggio) per un ritrovare il padre, non si sente oltre lo schermo un sentimento di partecipazione o meglio di coinvolgimento.
Alla fine il ‘luogo’ di ritrovo è dentro e ogni gesto pare sovrappiù con un minutaggio (forse) eccessivo. E in fondo quello che accade quando i due ‘si riconoscono’ pare già detto e visto, fuori tempo massimo. Un parlare a vuoto come l’ultimo puntino dell’astronauta-padre che va oltre l’oscurità dello schermo.
Brad Pitt (Roy McBride), visto nel film di Q. Tarantino pare completamente a suo agio, si sente in parte riuscito, si vede allo specchio e si racconta con memoria giusta e ripetitività da manuale e quindi poco veritiera. Per un attore di tale calibro il responso non è al massimo: peccato per chi scrive e per una storia che non gli va a genio pienamente.
Tommy Lee Jones (Clifford McBride)è il solito a recuperare la scena quando la storia langue. Certo scriverlo meglio sarebbe stato ideale per un attore che da seconda linea ha lasciato il segna in tutta la sua filmografia (qualcuno dovrà recuperare anche le poche sue regie tra cui ‘Tre sepolture’j.
Donald Sutherland (colonnello Thomas Pruitt) è un cameo troppo breve. Riesce a farsi ricordare ….forse sarebbe stato meglio approfittarne.
Fotografia (H. von Hoytema) di buon impatto e persuasiva; lo scopre musicale sembra fuori tono (rispetto alle immagini); ognuno si adagia ma il compositore Max Richter merita sempre rispetto.
‘I peccati dei padri ricadono sui figli’. Come gli errori di ciascuno non sono più personali. Ecco quello che Roy dice non deve (ri)cadere sullo spettatore.
Regia di James Gray plasmata e costruita, mesta e speranzosa. Per una pellicola dove le intenzioni si perdono in scorciatoie e giochi poco credibili. E pensare che il suo precedente ‘Civiltà perdute’ (he Lost City of Z, 2016) aveva convinto (e coinvolto) decisamente di più.
Voto: 6+/10 (***) -cinema (s)vuoto-