Alien: Covenant è un film ibrido, un ponte poco solido con cui Ridley Scott pare salutare definitivamente gli scenari elaborati in Prometheus per tornare, a piccoli e incerti passi, al passato, a quell’Alien che tanto ha influenzato e cambiato il genere sci-fi nel lontano 1979.
Anno 2104, l’astronave USCSS Covenant, con a bordo 2.000 coloni in sonno criogenico e migliaia di embrioni, è in viaggio verso il pianeta Origae-6 con lo scopo di colonizzarlo, dal momento che presenta caratteristiche simili alla Terra. Durante il viaggio però un’esplosione stellare colpisce in pieno l’astronave causando la morte di 47 coloni e costringendo l’androide Walter (Michael Fassbender) a risvegliare l’equipaggio. Improvvisamente viene intercettata una trasmissione radio proveniente da un pianeta non lontano dalla Covenant. Il primo ufficiale Chris Oram (Billy Crudup), contrariamente all’opinione del secondo ufficiale Daniels (Katherine Waterson), decide di raggiungere il pianeta alla ricerca dell’origine del segnale.
La pellicola si apre con una scena fortemente legata al precedente poco fortunato (molto apprezzato invece dal sottoscritto) capitolo della saga Prometheus, un monito per chi credeva che il cambiamento, o ritorno alle origini tanto voluto da una certa schiera di fan, sarebbe stato radicale fin da subito. Il cambio di rotta durante le due ore circa di durata dello spettacolo si avverte di certo ma è graduale, non traumatico e nemmeno deciso. Le condizioni di partenza dell’equipaggio della Covenant richiamano alla memoria il recentissimo Passengers a cui però, fortunatamente, non assomiglia per il resto. Seppure la scenografia segua perfettamente i canoni dei classici film di fantascienza, il film di Scott ha il merito di insinuare nel conosciuto un’impronta, seppur flebile ma percettibile, di originalità. A differenza del primo Alien (in parte, anche di Prometheus) che faceva degli spazi angusti e tetri un suo punto di forza, il nuovo capitolo della saga prequel si concentra, al contrario, su aree vastissime e sulla desolazione che affligge la natura del pianeta su cui atterrano i nostri protagonisti, a sottolineare che qualcosa di enormemente catastrofico e misterioso sia accaduto. Col passare dei minuti una certa curiosità cattura il pubblico che si sente così coinvolto nella spedizione di ricerca del luogo d’origine dell’ignoto segnale alieno, fino a quando avviene il metaforico passaggio ‘dal lato Prometheus’ a ‘quello Alien’ dell’opera. Scott ha il merito di riuscire a creare ancora una volta un nuovo e credibile escamotage per fare entrare in contatto le tremende e selvagge creature con l’equipaggio della Covenant. Il regista non rinuncia a toni fortemente splatter per esprimere tutta la naturale violenza del nuovo xenomorfo che, come già noto, utilizza un corpo vivente come involucro in cui crescere a velocità impressionante per poi venir fuori facendo esplodere letteralmente il torace dell’ospitante. Purtroppo, unico appiglio della trama rimane la curiosità che sorge dagli enigmi iniziali e che inesorabilmente crolla lasciando spazio al nulla. Lo xenomorfo entra in scena mostrandosi di continuo e a figura intera davanti alla cinepresa, rinuncia ad utilizzare quegli spazi angusti che costituivano nel primo Alien l’habitat a lui più congeniale per potersi muovere, strisciare, nascondere e colpire d’improvviso le sue vittime come uno spietato cacciatore. Il risultato è che non viene trasmessa nessuna sensazione di ansia e terrore nello spettatore. Proprio nel momento del cambio di marcia decisivo la macchina guidata da Scott non riesce a ingranare. La virata del regista è incerta, gli enigmi vengono risolti nei momenti in cui è tutto già pronosticabile e qualche colpo di scena riesce pure male perché ormai il distacco tra spettatore e protagonisti è avvenuto già da tempo. Il pubblico, quello un po’ più concentrato, sta spesso diversi passi avanti rispetto ai protagonisti facendo deteriorare gradualmente il coinvolgimento emotivo.
Tasto dolente della pellicola di Scott sono anche i personaggi, impalpabili non per mancanze recitative ma per lacune di scrittura e tempo dedicato. Ne escono dunque senza colpe soprattutto Katherine Waterson e Billy Crudup, personaggi la cui reale rilevanza nel film è ancora da capire. Spazio e recitazione sono invece apprezzabili nei personaggi di David e Walter interpretati da Michael Fassbender, credibilissimo sia nei panni del primo automa, David, che non nasconde sentimenti comparabili a quelli umani, sia in quelli di Walter, sintetico di nuova generazione progettato soltanto per obbedire, senza sentimenti e quindi inespressivo.
David in particolare è l’unico del cast ad avere una caratterizzazione ben definita. Intelligenza artificiale che ha dunque il suo “dio” creatore nell’uomo, David sviluppa a contatto con gli esseri umani modi di sentire affini che lo portano a diventare a sua volta un creatore, cogliendo in pieno la smania dell’uomo di voler superare certi confini invisibili che dovrebbero essere inviolabili. Il confine tra uomo e macchina si assottiglia: l’uomo sente sempre meno e diventa più cinico, la macchina sviluppa in sé qualcosa di umano che è quanto basta per sovrapporsi al primo quasi completamente.
Alien: Covenant rinnega in buona parte Prometheus, disintegrando letteralmente in un sol colpo, grazie a una trovata scenica, tutti gli affascinanti enigmi e questioni irrisolte che il primo capitolo della nuova saga prequel aveva messo sul piatto e cerca di tornare, non proprio in maniera convinta e decisiva, a percorrere strade già battute e più sicure. Il risultato è una pellicola priva di impatto emotivo (visivo, in parte) e di logica e intelligente costruzione. Alien: Covenant, soprattutto nei minuti finali, si rivela essere soltanto l’imbocco del viale che riporta al passato più lontano, a quell’Alien del ’79 troppo grande da avvicinare ma il cui universo di riferimento potrebbe essere utile, come una terapia, a far ridestare dal sonno i fan e soprattutto il caro Ridley.