Scott ha sempre rincorso Kubrick ma fermandosi all'”unde et cur malum” ch’è in antitesi con l'”unde et cur bonum”. A questa second’impostazione film come “2001” hanno fornito risposte banali (lo “starchild” incastonato nella presunt’armonia cosmica) e ambigue (il monolito: uno schermo nero su cui ognuno proietta ciò che vuole dal Tutto al nulla), mentre Scott s’è limitato a fars’influenzare dall’immaginazione perversa del “Necronomicon” gigeriano (1977) e dal dissennato romanzo dickiano “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (1968: perché i replicanti patirebbero la mortalità più degl’umani?). Partendo da simili premesse, “Prometheus” divent’una ricerca non dei Creatori bensì dei funesti demiurghi e magari in un “regressus ad infinitum” (cfr. il “trilemma d’Albert/Münchhausen”). Comunque sia, “Alien: Covenant” riassum’il peggio di tal’idee del suo regista, inclus’il cappello da cowboy dell’epilogo di “Strangelove”.
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