Archiviata la parentesi “in costume” di Magnifica Presenza, Ferzan Ozpetek torna a calpestare il terreno a lui più congeniale del melodramma, affidandosi alla scrittura di Gianni Romoli, sua storica penna (da Harem Suare a Saturno contro), e girando per le strade di Lecce, già set di Mine vaganti.
E lo fa senza troppe sorprese, con il suo solito stile e mettendo in campo i temi ricorrenti del suo cinema. Quando si affronta un film del regista turco è naturale aspettarsi famiglie disfunzionali – tradizionali o allargate che siano –, amici gay, rapporti irrisolti o quanto meno turbolenti, convivialità e coralità, una colonna sonora invadente ed enfatica. Così è anche Allacciate le cinture. Pur senza volerne fare una colpa, già questo rappresenta un neo all’interno del percorso dell’autore, che difende quest’opera, definendola la sua più matura e consapevole, ma che di fatto si dimostra ancorato a una struttura narrativa retrò.
Ozpetek non cerca mai neanche il colpo di scena, e fin dalla prima sequenza – dallo scambio di sguardi che Elena (Kasia Smutniak) e Antonio (Francesco Arca) si lanciano sotto una pensilina affollata, in un giorno di pioggia – è chiaro come evolverà la storia. Due anime agli antipodi – lei di buona famiglia, con aspirazioni imprenditoriali e un migliore amico omosessuale e socio in affari (Filippo Scicchitano), lui proletario, meccanico, omofobo e vagamente razzista – che, come è ovvio, si attraggono. Senza sentire il bisogno di dare troppe spiegazioni (forse qualcuna in più a chiarire la natura di questa relazione non avrebbe guastato), il regista li segue nell’arco di 13 anni, durante i quali mettono anche su famiglia e, nonostante tradimenti, equilibri precari, litigi e orari inconciliabili, si amano. Fino a quando su di loro si abbatte l’ombra della malattia: un cancro al seno che costringe Elena a una trasformazione del corpo e Antonio a quella dell’anima.
Ozpetek sceglie di compensare la drammaticità della situazione – sottolineata dagli insistiti primi piani sui protagonisti e la fotografia dell’arredamento degli ospedali – affiancando comprimari ironici e autori di siparietti addirittura comici. Se Egle (Paola Minaccioni), compagna di stanza di Elena, usa il sorriso e la (poca) sobrietà (sua parola d’ordine) per alimentare il desiderio disperato di sopravvivere nonostante la malattia non abbia mai smesso di consumarla, alla mamma e alla zia del personaggio interpretato dalla Smutniak (rispettivamente Carla Signoris ed Elena Sofia Ricci) viene lasciato il compito di far ridere, nonostante tutto.
E nonostante tutto, si ride pure. Il problema è la mancanza di equilibrio e integrazione tra le parti del racconto. Non c’è la continuità narrativa e lo sguardo dissacrante di film come 50 e 50, dove il tema della malattia si affronta con emozione ma mai pietismo, e dove il tumore non è mai veramente protagonista, schiacciato dal carisma dei personaggi.
Purtroppo questa prospettiva ad Allacciate le cinture manca. E non bastano singole sequenze di sincera bellezza e commozione o figure femminili forti e ben centrate a reggere un’intera pellicola, a bilanciare immagini volutamente drammatizzate e scivoloni sentimentali che sconfinano nel patetico; o – come nel caso del personaggio interpretato da Arca, che nella seconda parte del film subisce una trasformazione troppo repentina – a giustificare il percorso di personaggi mai veramente messi a fuoco.
Leggi la trama e guarda il trailer
Mi piace
Le sequenze più comiche, affidate alla coppia Signoris-Sofia Ricci.
Non mi piace
Le parti del racconto, non tutte, funzionano se prese singolarmente: il film manca di una sua integrità e troppo spesso cade nel sentimentalismo.
Consigliato a chi
Apprezza lo stile e il tocco di Ozpetek, che qui ripropone i temi ricorrenti del suo cinema.
Voto: 2/5