“This is not based on a true story. This is a true story”. Si apre così American Animals, ma se non siete familiari con i fatti di cronaca del Kentucky (e se così fosse siete perdonati) potreste arrivare alla fine del giro di giostra convinti di aver assistito a un’opera di finzione, uno heist movie a base di disagio suburbano, illusioni adolescenziali e spinte autodistruttive. E invece è tutto vero: era il 2004 quando quattro ragazzi in età universitaria decisero di rubare dalla biblioteca universitaria una serie di libri rari e costosissimi, per poi rivenderli sul mercato nero e ricostruirsi una vita con i soldi intascati. Vennero beccati, ovviamente, e si fecero sette anni di galera: American Animals è la loro storia, e Bart Layton, al suo secondo film dopo l’esordio con il documentario L’impostore, la racconta con il trasporto e la passione di uno che, dietro a quel gesto folle e inevitabilmente destinato al fallimento, ci ha visto un’aspirazione più grande, un anelito a un futuro migliore, diverso, che abbia un senso, che venga ricordato. Una vita, non una semplice esistenza.
Layton sceglie di raccontarla con lo stesso approccio con il quale i ragazzi affrontarono la rapina: con un entusiasmo pop contagioso e naif, che alterna momenti di grande cinema a interviste faccia a faccia con i veri protagonisti della faccenda, personaggi talmente assurdi che il dubbio che siano anche loro attori fatica ad andarsene. Narrativamente siamo di fronte a uno heist movie dei più classici: il cuore del film è nell’organizzazione del colpo, nel reclutamento dei complici, nelle planimetrie dei luoghi da razziare, nella minuziosa organizzazione di una rapina che, di fatto, prevede poco più che entrare in una biblioteca, stordire con il taser l’anziana bibliotecaria e, come si dice, arraffare il malloppo.
Se questa è la spina dorsale di American Animals, però, è in tutto il resto, negli orpelli, nelle riflessioni, nell’ambiguità della verità, che sta il suo cuore. Warren, Spencer, Eric e Chas non sono criminali, non sono poveracci e non hanno alcun vero motivo per pianificare la rapina: ragionevolmente benestanti, tutti instradati verso una carriera universitaria e un futuro forse banale ma rassicurante, è proprio in questa normalità estrema che trovano il motivo per ribellarsi e provare a lasciare il segno – a capire cosa significa davvero vivere, come dice lo straordinario Warren di Evan Peters. Una scelta figlia della noia e dell’irrequietezza dei vent’anni più che della necessità: e infatti per elaborare il piano si ispirano a The Snatch e si guardano decine di heist movie, scelgono di chiamarsi “Mr. Pink, Mr. Yellow, Mr. Green, Mr. Yellow”, come se stessero mettendo in scena il film delle loro vite e non sottraendo alla collettività dei beni preziosissimi. E Layton (che fino a poco tempo fa era in trattative per sostituire Danny Boyle alla guida del prossimo James Bond, ed è un peccato che non sia successo) va loro dietro con gioioso abbandono, li asseconda con una regia e un montaggio ispiratissimi e ipercinetici, figli del Guy Ritchie prima maniera e di un approccio al racconto che confonde volutamente realtà e fantasia e si diverte ad analizzare ogni svolta da angoli diversi e spesso inaspettati.
Il risultato è un raro e prezioso caso di film che riesce a non perdere la leggerezza anche quando va a toccare tasti dolorosi e controversi; e che al contempo non da mai l’impressione di voler ridicolizzare o sminuire i tormenti di un gruppo di adolescenti costretti a combattere contro un nemico insidioso come la noia esistenziale, ma neanche di celebrarli o trasformarli in eroi: Layton riesce nel miracolo di mantenere quel minimo sindacale di distacco che gli proviene dal suo passato di documentarista, limitandosi a raccontare i fatti senza abbellirli e mettendo i suoi virtuosismi al servizio della storia. In altre parole, American Animals è un film semplicissimo da amare ma complicato da districare, perfettamente neutrale e insieme moralmente ambiguo, che tra un piano sequenza da capogiro e una fuga in macchina “alla Drive” riesce a infilare riflessioni su, tra le altre cose, il potere trasformativo della violenza e l’oppressività della vita di provincia.
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