American Sniper: la recensione di Barbara Monti
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American Sniper: la recensione di Barbara Monti

American Sniper: la recensione di Barbara Monti

Chris Kyle, originario del Texas, è cresciuto nella convinzione – trasmessagli dal padre – che al mondo vi siano tre categorie di persone: i lupi, le pecore e i cani da pastore.
Quando l’11 settembre 2001 Kyle vede in televisione l’attentato alle Torri Gemelle capisce immediatamente di appartenere alla terza categoria, e va ad arruolarsi nelle Navy SEALs (le Forze per Operazioni Speciali della Marina degli Stati Uniti).
La mira infallibile di Kyle fa sì che venga inviato in missione in Iraq in qualità di cecchino, guadagnandosi il soprannome di “Leggenda” per via dell’elevato numero di vittime collezionato.
L’incapacità di Kyle di riadattarsi alla quotidianità una volta tornato a casa creerà tra lui e la sua famiglia una distanza sempre più grande.
Clint Eastwood con American Sniper si rifa’ all’omonima autobiografia di Chris Kyle, il cecchino americano più famoso del mondo. Il film è stato preceduto da un lancio pubblicitario studiato ad hoc: non il classico trailer composto da una serie di sequenze, ma un’unica sequenza di grande impatto, interrotta proprio nel momento di massima tensione. Eastwood sa bene come tenere lo spettatore col fiato sospeso e con American Sniper lo fa egregiamente.
L’azione si svolge per la maggior parte in Iraq, ed è proprio qui che il regista si dimostra abilissimo nel costruire la suspanse (magistrale la scena della tempesta di sabbia). Il ritmo è serrato, la cinepresa ci mostra lo sguardo di Kyle: guardiamo nel mirino con lui, tratteniamo il respiro e… spariamo. Perché se c’è una cosa della quale possiamo stare certi è che il cecchino farà il suo dovere, sempre. Anche se dall’altra parte del mirino c’è una donna o un bambino: è il prezzo da pagare per svolgere il suo compito, ossia salvare i propri compagni dal nemico iracheno.
L’uscita del film, com’era prevedibile, ha provocato una netta divisione tra i pareri della critica: da una parte coloro che accusano ferocemente Eastwood di eccessivo patriottismo, dall’altra quelli che invece vedono in American Sniper diverse sfumature di significato.
Il regista ha realizzato un film che racconta la guerra dal punto di vista di un cecchino americano: è indubbio che il nemico sia l’iracheno e che il suo punto di vista non sia affrontato. Ciò nonostante, ridurre il film ad un atto propagandistico e guerrafondaio appare quantomeno superficiale.
Un regista attento ai chiaroscuri come Eastwood non avrebbe mai scelto di realizzare un’opera con l’unico scopo di celebrare un’ideologia nazionalista. Altrimenti non avrebbe mai realizzato Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, due film che raccontano la stessa battaglia (Iwo Jima) durante la seconda guerra mondiale, rispettivamente dal punto di vista dei marines americani il primo e da quello dell’esercito giapponese il secondo. Occorre fare un’analisi un po’ più attenta, senza lasciarsi andare a semplificazioni inopportune.
Kyle, interpretato da un convincente Bradley Cooper, è un uomo nato e cresciuto in Texas, con un’educazione di impronta machista avuta da un padre rigido e perentorio. È interessante osservare è il confronto tra l’evoluzione del protagonista e quella del fratello. Entrambi sono animati dal desiderio di difendere il proprio Paese, ma dopo essere stati in missione le cose cambiano: mentre Kyle rimane inamovibile nella sua convinzione di combattere una battaglia giusta, il fratello non vuole più mettere piede in Iraq, visibilmente provato dalla guerra.
Kyle sviluppa una sorta di ossessione che porta la sua mente ad essere in guerra anche quando è casa con la famiglia: non cessa mai di sentire gli spari, non cessa mai di sentirsi colpevole. Colpevole per tutte le vite che non ha potuto salvare e per quelle che non salverà.
Significativa anche la scena che ritrae Kyle dallo psicologo. Alla domanda del medico se Kyle fosse turbato perché in missione aveva dovuto fare cose che avrebbe preferito non fare, la risposta del cecchino è molto semplice: no. Kyle non si è mai pentito di ciò che ha dovuto fare in guerra, il suo unico tormento è di non poterlo fare ancora.
Eastwood ci mostra un uomo con una fede “monolitica”, che non si è mai fermato a chiedersi se quella guerra fosse giusta o meno: se l’avesse fatto non sarebbe stato la stessa persona.
Un uomo divenuto una macchina da guerra che, una volta a casa, si inceppa: la guerra è la normalità, la pace no. L’essere diventato un eroe patriottico ha conciso quindi con la perdita di umanità, un’umanità che nemmeno la sua famiglia sembra in grado di restituirgli.
Il regista ci mostra sì un uomo considerato eroe nella sua patria, ma ci mostra anche le venature di questa storia drammatica.
Ad una regia ineccepibile si accompagna quindi l’abilità di mantenersi sempre in bilico su quel filo sottilissimo che separa la narrazione dal giudizio morale, questo grazie anche ad una sceneggiatura molto curata.
Poco conta quindi l’orientamento politico di Eastwood, quello che importa è saper cogliere le luci e le ombre che questo grande regista è capace di rappresentare nei suoi film.

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