Se la pornografia diventa lo scopo unico e finale di ogni giorno della vita di un uomo. È questo l’assunto di Amore liquido, opera prima di Marco Luca Cattaneo che torna in sala dal 6 aprile con Distribuzione indipendente. Piena estate, Bologna. In una città fantasma a muoversi sotto i portici sono davvero pochi, tra loro Mario, spazzino comunale del turno di notte. Poco socievole, lavora da solo e quando albeggia torna a casa dove prima di riposare si attacca al computer per visitare siti porno. Solitario e solo, se si escludono una madre invalidata da vecchiaia e malattia che vive con lui, e una sorella sposata con figli che prova a scuoterlo dal suo torpore, vive la quotidianità senza stimoli né slanci. A cambiare un po’ le cose arriva l’incontro con Agata, giovane e bella barista tornata single da poco: Mario la spia senza essere visto, rovista nel suo passato quando lei butta via una scatola piena di ricordi e cianfrusaglie, e alla fine riesce ad istaurare un rapporto. Ma la fisicità vera di questa frequentazione lo mette a disagio, incapace com’è di relazionarsi con gli altri, di vivere davvero le emozioni. Molto più sicuro tornare dietro al monitor del suo computer e cercare la compagnia di qualche avvenente signorina che non sa neanche che lui esiste. Prendendo in prestito il titolo del libro del sociologo e filosofo Bauman Zygmunt, che con Amore liquido definiva la fragilità dei rapporti umani, il film più che sulla liquidità dei rapporti pare volersi focalizzare solo sulla paura di amare e essere amati. Un po’ quello che accadeva nel più fortunato e conosciuto Shame di Steve McQueen con Michael Fassbender che però Cattaneo anticipa di 4 anni (Amore liquido viene infatti riproposto in sala, ma è stato girato nel 2008). Nel film italiano non si cade nella predica anti pornografia, ma si rimane spesso vittime della noia. Se l’intuizione della città-deserto si sposa bene con l’atmosfera di solitudine in cui vive il personaggio, il resto fa fatica ad amalgamarsi altrettanto correttamente. Oltre alle dinamiche di regia pressoché assenti, con pochi movimenti e una macchina da presa collocata in punti fissi per ciascuna location, Cattaneo non ha saputo valorizzare il protagonista, Stefano Fregni, che sa dar corpo all’uomo mite, problematico e schiavo di una dipendenza inconfessabile, ma che forse con una regia più articolata avrebbe potuto dare maggiore respiro al personaggio regalandogli delle sfumature. L’impressione è che per raccontare una dipendenza e un uomo che prova ad uscirne si sarebbe dovuto osare di più, sia dal punto di vista visivo che di scrittura. Il personaggio di Mario non viene ritratto come un mostro (di qui le scene con le amorevoli cure per la mamma malata e il suo secco no a metterla in un ospizio), ma come una persona confusa e malata, mentre i suoi demoni interiori, il disagio, il dolore, la propria inadeguatezza rimangono purtroppo un mistero per gli spettatori.
Mi piace:
Affrontare un tema spinoso come la porno-dipendenza è stato coraggioso.
Non mi piace:
Regia e script poco articolati non riescono a mostrare i demoni interni del protagonista.
Consigliato a chi:
È appassionato di sociologia
Voto: 1/5
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