“Animali notturni” (Nocturnal Animals, 2016) è il secondo lungometraggio del regista-sceneggiatore Tom Ford.
Una donna sola.
Titoli di testa corporei, fisici, reali ma virtualmente annullati dai volti spenti di chi guarda come di chi è dentro una mostra di morti viventi. Lucidi, truccati, spalmati, mascherati e altro sono i volti di donne pure e fintamente vive. La carne sovrappiù è adagiata come in movimento su uno schermo apparente mentre la carne sottratta e addobbata resta in freddezza commisurata in un algido spostamento di camera ritroso e avvedutamente ligneo. Tutto in bruttura con un sottofondo musicale tristemente ardito di schern(m)o all’oggi.
La galleria d’arte di una donna piena di se che svilisce il suo corpo lineare, morbido, lucido e truccato in una movimento di abbondanza, quella della ricchezza e dell’ostentare ogni cosa anche il corpo interiore.
Animali notturni è un indice, è l’appellativo che qualcuno ricorda e di cui vuole scrivere per una vita spenta e separata da vent’anni. Susan e il suo ex che ritrova in pagine fulminanti e angoscianti. Mentre qualcuno fugge da lei da rimanere sola.
Tom Ford torna a dirigere dopo il suo ‘A single man’ di sette anni addietro: nonostante poco il suo cinema è ormai riconoscibile come stile e marchio. Set poco girevoli, colori levigati, cieli di contorno e magie spente. Un modo asettico, plumbeo, implosivo, planato, rallentato nell’esecuzione e nel destino di ciascuno. Ognuno di noi , ciascuno che legge e racconta.
Una donna sola, Susan Morrow (Amy Adams), che prende tutto, tocca l’arte, ha un qualcosa da toccare, riesce a non accudire ciò che manca, forse l’attesa di qualcuno. Mentre seduta aspetta, aspetta e ancora aspetta. Sorseggia l’ennesimo bicchiere per tradire un’emozione connaturata. Da lontano l’inquadratura si tiene, una mano che alza e dei tavoli oramai vuoti. L’ora è tarda e il vivere dentro che appassisce un silenzio pieno di livore, violenza, amore disperso è una figlia che vorrebbe addomesticare. Una donna piena di desiderio passato in un presente sconcio, ferreo, slabbrato, sconsiderato e avvinghiato nell’oscuro sentiero di un paesaggio deserto.
Una donna che ha tutto, una donna che sembra felice, una lettera inaspettata, una bozza di un libro, una lettura che si dipana, una vita che si dispiega, un gioco di morte, una moglie è una figlia, tre figure oniriche, un poliziotto, la verità da conquistare, un’indagine, un vuoto e un’attesa di lontano destino. Il destino di una donna sola.
Ecco che l’interiorità femminile fa da paio al ‘single men’ che il regista sembra voler ricordare. Manca un amore di uomo, manca una figlia lontana, manca il contatto umano dentro una casa dove la ricchezza ostenta se stessa. Il vuoto dei desideri da ricordare nelle pagine ( ri)scritte da qualcuno che vorresti (ri)conoscere.
Un film agglutinato di colori stonati e lucidi dove il cielo ( vestito) di nuvole adombrate controlla il set e i suoi movimenti lungo sentieri illuminati dalla notte e impolverati dal sogno americano. E’ il silenzio di un tavolo in attesa dove si beve ingannando il tempo e le vite che si attendono.
Il film di Tom Ford è pieno di livore, di trucido pensiero, di sangue sfinito e di un gioco perverso tra una finzione connaturata e una scrittura di una vita persa. La morte piena di pagine da chiudere. Dimmi dove che mi siedo. Forse il bianco e nero, in alcuni frangenti, sarebbe stato il segno vero di una manicheo oscuro animo di un tempo riaffiorante. Tant’è che il detective pare preso da un film lontano nel tempo che si materializza per noi e per chi cerca il destino della sua famiglia. Un Bobby Andes (Michael Shannon) da spaventare oltre i luoghi percorsi e quelli da cercare tra le righe per riavere madre e figlia.
Il cast è assolutamente integro alle parti (tutti in modo sottrattivo e asciutto) che sembra esplodere da un momento all’altro per ogni cosa trattenuta. Forse il filo doppio tra gioco narrativo e incastro scritto limita l’arguzia filmica per un piano troppo studiato ad ogni movimento di ripresa.
Voto: 6½ /10.