Era da molto tempo che il cinema non si occupava di Olocausto, forse per quel meccanismo di rimozione che nel nuovo film di Roberto Faenza viene introdotto molto bene all’inizio. Anita B. è una ragazza ungherese che è riuscita a a sopravvivere ad Auschwitz alla fine della guerra, ma ha visto morire i suoi genitori nel campo di concentramento e porta con sé tutte le ferite del caso. Avrebbe bisogno di parlare e sfogarsi, ma nessuno dei componenti della sua nuova famiglia, sua zia Monika (Andrea Osvart) o il marito Aron (Antonio Cupo) né tanto meno il giovane Eli (Robert Sheehan), vogliono che si parli della Shoah in casa. Alla giovanissima ragazza, non resta che confidarsi col bambino della coppia a cui fa in qualche modo da tata, ma presto anche questo suo innocente sfogo verrà scoperto e subito stigmatizzato dalla zia, che mal sopporta la sua presenza in casa per i brutti ricordi che le evoca. Anita sogna di scrivere e ama dipingere, ma per lei il futuro ha in previsione un futuro da sarta. Col passato sotto cassaforte, la ragazza si concentra sul suo sentimento per il giovane Eli, troppo immaturo per accettare il fatto che la ragazza sia incinta…
Faenza, regista di lungo corso, torna a parlare dell’Olocausto a distanza di 10 anni da Jona che visse nella balena, da una “soggettiva” giovane – come spesso gli piace fare -, ma il progetto non segue con precisione l’ago della bussola. Prende spunto da un romanzo di Edith Bruck, Quanta stella c’è nel cielo, e lo trasforma in un romanzo di formazione prevedibile e retorico, che scivola via via nel feuilleton con tanto di coppietta che litiga se tenere o meno il figlio che lei porta in grembo… Con le premesse da cui partiva il romanzo, si sarebbe potuta mettere in atto una bella riflessione intimista sull’importanza di non dimenticare e non rimuovere le ferite della Storia perché scomode e amare da digerire, ma dell’importanza di rielaborarle e trasformarle per poter andare incontro al futuro pacificati, invece che tenerle sotto coperchio, facendosi in qualche modo dominare da esse. E invece Faenza, distratto, abbandona subito la traccia ed esce dal sentiero mettendo in piedi un bildungroman noiosetto, dalla regia povera, dalla scrittura basica e con una protagonista monoespressiva, che avrebbe fatto più bella figura come miniserie di Rai Fiction.
Pur con tutte le più nobili intenzioni del caso, è evidente che più di operazione televisiva che cinematografica si tratti, anche per il cast scelto (Osvart, Cupo, Sheehan) e per il low budget impiegato (1 milione di euro, raccolto tra contributi statali e cofinanziamento della Regione Alto Adige). Ed è un vero peccato osservare questa retromarcia nella carriera di un regista, che col film precedente, Un giorno questo dolore ti sarà utile, aveva osato dare vita a un interessantissimo progetto internazionale, girato a New York e tratto dall’acclamato Peter Cameron. Speriamo torni presto a volare più alto.
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Mi piace: il desiderio di tornare a parlare di una grande ferita della Storia
Non mi piace: la regia distratta e i dialoghi retorici
Consigliato a chi: a giovani studenti che abbiano bisogno di approfondire il tema dell’Olocausto
VOTO: 2/5
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