Il regista canadese Denis Villeneuve (Prisoners; Enemy; Sicario; il prossimo Blade Runner 2049) soffia finalmente aria fresca sul panorama fantascientifico, recentemente un po’ fiacco, con il film Arrival che getta nuove e stimolanti basi da cui ripartire appassionatamente. Eric Heisserer (Final Destination 5; La cosa [2011]; Lights Out – Terrore nel buio) realizza una sceneggiatura che dosa perfettamente parlato e suspence. Fotografia affidata a Bradford Young (Selma – La strada per la libertà). Musiche di Jóhann Jóhannson (Prisoners; La teoria del tutto; Sicario; il prossimo Blade Runner 2049). Amy Adams interpreta perfettamente il personaggio (come si sospettava), mentre Jeremy Renner si conferma un buon comprimario. Solo una parte secondaria, ma importante e recitata con la giusta severità, per Forest Whitaker.
La linguista Louise Banks (Amy Adams) viene scelta per entrare a far parte di un team speciale, formato da esercito e scienziati, il cui compito è quello di riuscire a scoprire le intenzioni di una specie aliena arrivata sulla Terra a bordo di 12 navi soprannominate “gusci”. Louise ha già avuto a che fare con questioni di sicurezza di alto livello grazie alla sua eccezionale conoscenza delle lingue e per questo viene scelta quale possibile veicolo comunicativo tra umani e alieni al fine di scoprire il perché del loro arrivo. Il compito di Louise è di fondamentale importanza visto che le navi, sparse per il globo, potrebbero causare l’intervento militare delle Nazioni “occupate”. Ad aiutare la linguista ci sarà, tra gli altri, il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner) mentre il braccio armato è rappresentato dal colonnello Weber (Forest Whitaker).
Fresco di 8 nominations all’ormai imminente edizione degli Oscar, lo sci-fi di Denis Villeneuve, Arrival, riesce a mettere in mostra la migliore qualità che in questi anni il genere aveva smarrito: l’originalità. Il regista si serve del reiterato e maltrattato tema dell’ “invasione aliena” per raccontare tutt’altro. Le 12 astronavi che arrivano sulla Terra si comportano in modo totalmente opposto rispetto a quanto visto sullo schermo nell’ultimo lungo periodo. Gli alieni non vogliono seminare morte e distruzione per chissà quale motivo. Vogliono dialogare! E scordatevi di usare il termine ‘semplicemente’ tra le parole ‘vogliono’ e ‘dialogare’ perché, in realtà, quello che ad esseri primitivi come noi riesce più semplice è sicuramente fare ricorso alle armi senza pensare nemmeno per un secondo alle disastrose conseguenze. Finalmente viene presentata sullo schermo una vera intelligenza superiore, in tutti i sensi. Ma, che cosa vogliono i visitatori? Tra la tensione che vige in 12 Paesi occupati da altrettante navi spaziali, in quella che sembra essere la classica calma prima della tempesta (sono il primo nella storia a usare questo modo di dire!), agisce dunque la figura di Louise Banks, la linguista che cercherà di usare con i visitatori l’arma più potente (ma l’uomo mica lo sa) a nostra disposizione: il dialogo. L’apprezzabile personaggio interpretato da Amy Adams è assillato, durante tutto l’arco del film, da vecchi, dolci e orribili ricordi riguardanti la figlia, morta in giovane età a causa di un male. Come ci si può attendere, la reiterazione di tali ricordi risulterà in qualche modo determinante. Determinante e spiazzante. Villeneuve ti da il tempo di un film per cercare di carpire elementi significanti da questi ricordi ma tutto quello che riesce a fare è stupirti. In uno sci-fi che si rispetti il pensiero logico va a farsi benedire ed è proprio quando scopri di aver torto che puoi godere del risultato della pellicola. Villeneuve, che ho già apprezzato enormemente in Prisoners, è abile nel creare la giusta atmosfera, la giusta musica, le giuste ambientazioni, la perfetta misurazione dei momenti lenti e tesi che ben si accordano ad un prodotto del genere. La bellezza del film sta nell’intreccio, nel venirsi incontro, soltanto alla fine, di elementi che all’inizio partono distanti e come posti su linee parallele che non si incontreranno mai. L’altra tematica è il tempo. La pellicola gioca, con mestiere, con questo fattore intangibile provando a liberarlo dalla prigione della nostra limitata e lineare concezione di esso. E’ una delle cose che più ammiro nei registi che, come Villeneuve, ci riescono (vedi, sul tema, Interstellar; non meno sensazionale al riguardo Predestination). In definitiva, l’invito ad una necessaria quanto immediata rivalutazione del dialogo tra gli esseri umani viene urlato a gran voce in Arrival. C’è bisogno di risvegliare l’umanità che dorme nelle nostre menti labili, diffidenti, in continua competizione l’una con l’altra per raggiungere un bene personale fregandosene dell’altro. L’incomprensione, generata dalla volontà di non voler capire, ci porta a reazioni immediate e insensate soltanto per paura che il nostro vicino faccia la prima mossa che ci porti alla sconfitta. Questo è un mondo che, oggi più che mai, deve pretendere che la fiducia reciproca e la collaborazione per un bene comune e più grande della soggettività diventino i valori portanti dell’essere umano. Tutto questo in Arrival c’è. Una lodevole pellicola di fantascienza che non rinuncia al messaggio profondamente attuale e reale, e destinata a diventare, negli anni, un cult. Ne avevamo bisogno.