Ave, Cesare!: la recensione di loland10
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Ave, Cesare!: la recensione di loland10

Ave, Cesare!: la recensione di loland10

“Ave, Cesare!” (Hail, Caersar!. 2015) è il diciassettesimo lungometraggio dei fratelli Joel e Ethan Coen originari di St. Louis Park.
Che dire quando il corso e ricorso (storico) dei fratelli cineasti antepone ogni logica (e vituperata gloria) di mercato alla affabulazione mistica e denigratoria degli Studios in pompa magna che sagacemente s’allungano e imperano in un lungometraggio sproloquiante di ironia preposta e di battimani postmoderni. Il nulla di ciò che fu, il nulla di ciò che si rappresenta, il set sul cinema che gira se stesso, la ripresa di un plastico in opera e il ballo di una recita continua.
I Coen omaggiano la Hollywood di ieri prolungando la simbiosi catartica del ‘Barton Fink’ (1991) di ieri che in modo succulento si pone al guado del ‘margine’ iconoclasticamente classico di un cinema vario e variabile che legge il passato con un gusto sempre dileguante e per nulla retrò (con tristezza avveduta di un cliché modernista superato e alquanto irriverente verso i capolavori-sti per eccellenza). E sì, che il gioco ammaliante dei set in formazione cadenza una finzione rispettosa e una vita arditamente voluttuosa.
Il cinema dei fratelli del Minnesota è perennemente ricerca di loro stessi e di un costante alter-ego mescolando il genere e i generi, accatastando scene madri e di scarto, alleggerendo il torpore ripresa con un sarcasmo festoso e scodellando il fascino del set con visi stupiti, stupidi, rapiti e svaniti. E’ il colore di una fotografia ariosa e spiritosa che spinge il duo verso traguardi inaspettati per un cinema di sana arguzia e di intelligenza vacua. In realtà i Coen cercano di distrarsi quando irridono e cercano di sognare quando riprendono.

Ave è il solo inizio possibile per un puzzle souvenir della ‘Hollywood’ di ieri dove la casa ‘Capitol-production’ cerca attori da sostituire, brave comparse e film da realizzare con i migliori registi. Senza scandali da mostrare e mascherando litigi, divisioni e matrimoni falliti. Perché alla Capitol non si può parlare di fallimento e si pensa in grande e per realizzare un ‘grande film’ sull’uomo della Palestina (Gesù che non vediamo mai in volto) in modo irriverente si cerca di far quadrare il cerchio e di invitare i capi religiosi mondiali per non ‘offendere’ nessuno. E l’incanto mistico è modo disdicevole per non irritarsi sorridendo e aprire le lacrime del suffisso indecoroso.
Vesti come i Romani e non avere spade e metalli tra gambe e sedie da occupare perché l’ospite del convegno non sa nulla di dejavu rossa e giammai si vocifera qualcosa contro un encomio di intelligenza quale un ceto da ‘omaggiare’ nell’unico salotto che conta vicino all’Oceano che sprofonda idee e galleggia irriverenti mostri del passato (qui l’elenco in auge e di compiacimento irrisorio è davvero troppo lungo per poterne scriverne e parlarne).
Eddie Mannix (vero personaggio della produzione e ‘fixer’ per quarant’anni) ricama, cuce, parla, aggiusta, seziona e distingue ogni buon prodotto per finirlo in bellezza. Un vero ‘contro-pettegolezzo’: tutto senza sosta per un film in grande spolvero e che rimanga anche con mezze parole recitate bene (chi non altri per un Hobie Doyle …. che dopo profonde cavalcate rimane stupefatto quando deve cominciare, anche, a recitare…). Lo sberleffo di un gusto cinematografico con rimpianto azzerato.

Clooney come Whitlock, un attore di fama per una recita in minore e un cretino da soddisfare fino a quando il set si commuove di una recita (quasi) perfetta … peccato dimenticare la parola chiave (sotto ogni fede di cinema insalubre e poco dolciastro da inveire contro i soldati romani che maestosamente camminano in schiera e adunano il pubblico in una sala di proiezione).
O giammai un regista sul set pazienta come un Laurence qualsiasi (Ralph Fiennes in abito perfetto …) per una voce che non arriva e una battuta che inciampa ad ogni montaggio del film (ri)girato.
E perché poi i comunisti sono in ritiro per una sceneggiatura di colpo a ferire giusto per parlare (forbitamente) di Herbert Marcuse e di ciò che l’altra nazione non sa. Ed ecco arrivare un sommergibile (di stile antico in ripresa) che abbaglia lo schermo mentre una valigetta (troppo piccola) affossa il peso specifico pieno di denaro per la giusta battaglia. Un cagnolino è sempre di troppo.
Nulla il fine ultimo di una pellicola altisonante e (in)gloriosa per un cinema da ‘scandire’ ma senza un rituale da tavola e cadendo il sogno si stempera in una malinconia interiore per un film aggrumato di ricordi e pieno di speranze post-irriguardose.
Regia dei Coen di alto garbo artistico.
Voto: 8+/10.

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