Gli Avengers, divisi dopo gli eventi di Captain America: Civil War, rimettono insieme le forze per far fronte a Thanos (Josh Brolin) e uscire da quella clandestinità cui gli Accordi di Sokovia li hanno costretti. Per sventare la minaccia del dittatore alieno servirà davvero l’apporto di tutti al loro meglio, perché il temibile e spietato villain è determinato come non mai a impossessarsi delle Gemme dell’Infinito, che gli garantirebbero il controllo totale della realtà e la possibilità di sovvertire completamente le sorti e il destino dell’Universo.
Avengers: Infinity War, lo sapevamo, è praticamente il crossover più ambizioso che il cinema commerciale abbia mai concepito fino a questo punto: una riunione di famiglia in versione extralarge, la summa di dieci anni di Marvel Cinematic Universe, con tutti i personaggi accorpati e uno sforzo immane per tenere insieme il tutto (dieci minuti ciascuno, e avanti il prossimo, con grande equilibrio). Un’operazione titanica tanto quanto il supercattivo che la abita e la rende così elettrizzante e precaria: un sopravvissuto, più che un profeta, per il quale schioccare le dita è l’unica e ultima forma di pietà.
La Spada di Damocle che pesa sulla testa degli Avengers e dei Guardiani della Galassia, insieme per l’occasione, è di quelle da far tremare i polsi, ma in compenso c’è la lucidità dei Russo, che anche grazie alla limpida sceneggiatura di Christopher Markus & Stephen McFeely dosano in maniera millimetrica scene comiche e battaglie campali, apparizioni e, soprattutto, cortocircuiti: avere dei personaggi mai visti gli uni accanto agli altri nella stessa situazione dà anche alla gag in puro stile Marvel, che abbiamo imparato a conoscere, il brivido dell’ignoto, l’imprevedibilità della scoperta.
È il punto d’arrivo di un intero decennio di avventure partite col primo Iron Man nel 2008, Avengers: Infinity War, e come tale va vissuto, ma il godimento dell’avventura non è affatto sospeso in nome di una resa dei conti dal sapore definitivo: i Russo pensano al rialzo e mai al ribasso, il loro pensiero cinematografico è allo stesso tempo teoria e prassi del divertimento e non si siede sul già noto. Condensano tutto ciò che la Marvel ha da offrire in un unico film e il risultato, in termini di epopea e di epica, diverrà inevitabilmente un punto di riferimento, una pietra di paragone dalla quale sarà impossibile prescindere. Anche in vista del prossimo capitolo, ancora senza titolo, in arrivo nel 2019, chiamato a rispondere alle macerie, allo sbriciolamento delle certezze..
Fin dal titolo, Avengers: Infinity War dichiara di guardare verso l’Infinito e oltre e poi lo fa per davvero: perché le Gemme dell’Infinito di Thanos, da racchiudere in un guanto potenzialmente onnipotente, sono in fondo la metafora più efficace di un potere creativo e aggregativo ancor prima che, banalmente, distruttivo e apocalittico. Un dominio che solo riunendo tutti gli elementi e i concetti fondamentali dell’universo può aspirare a superare ogni limite, a squarciare qualsivoglia barriera, contrapponendosi così al cuore luminoso e altrettanto onnipotente dell’Iron Man/Tony Stark di Downey jr, che basta invece sempre a se stesso (che sia un intralcio?).
Di rado dopotutto, nell’universo Marvel e non solo, abbiamo visto un antagonista così decisivo nell’economia del racconto, così simbolico della natura dell’intera operazione: Thanos è un narcisista sociopatico e shakespeariano, nelle parole degli stessi registi, metafora di una volontà di potenza che in Avengers: Infinity War sfida l’ultraterreno, accumula mondi attraverso didascalie maiuscole proprio come fa il film, che agguanta a più riprese l’adrenalina e l’apoteosi. Non solo di un’idea di narrazione e di industria, ma anche di una concezione di mondo e addirittura di spiritualità soprannaturale.
Il clamoroso finale, ovviamente senza rivelare nulla, avrà il potere di lasciare strascichi profondi, di tramortirci e spiazzarci come mai prima d’ora. La resa dei conti di questa battaglia comica e serissima, affrontata con liberatoria leggerezza, è totale e senza ritorno, Wakanda un sontuoso palcoscenico fatto di polvere e sangue (il successo stratosferico di Black Panther non poteva non pesare e c’è anche una battuta da meme obamiano su uno scudo), la coralità spinta verso esiti mai così tragici e coraggiosi. Era difficile, alla vigilia, immaginare un epilogo che avesse una consapevolezza della catastrofe così lucida, a tal punto da fare addirittura i conti con l’11 Settembre nella solita scena post-credits ma anche ben prima di arrivarci (un compito che di solito spetta sottobanco a un cinema di genere molto più basso).
Intendiamoci: le prese in giro non mancano, come quelle a Footloose e Kevin Bacon, ma anche a James Cameron e a quel “vecchissimo film”, Aliens – Scontro finale, che fa curiosamente il verso alle ultimissime polemiche contro gli Avengers avanzate dal regista di Avatar. Il postmoderno e l’ironia, insomma, sono ancora i superpoteri principali, ma guai a sottovalutare, oltre alla Marvel concepita dal boss Kevin Feige a misura di sberleffo e di effervescenza corale (di cui questo film è l’apogeo indiscusso), la Storia e l’America, le sue guerre infinite e le ferite, recenti ma mai sanate. E, soprattutto, il suo senso dello Spettacolo. Anche nell’Apocalisse.
Mi piace: il senso della catastrofe che esplode in un finale incredibile, indimenticabile, fondamentale nell’economia del cinema commerciale contemporaneo e delle sue logiche di “sopravvivenza”.
Non mi piace: qualche sequenza gigiona di troppo, che tuttavia non compromette affatto una gestione sapiente e millimetrica nell’avvicendamento in scena, spesso brutale, di tutti i personaggi del Marvel Cinematic Universe.
Consigliato a: banalmente tutti i fan della Marvel, perché questo è il film che porta a compimento la magica ideologia dello sberleffo di Kevin Feige, e il film che nessun fan del cinema di supereroi può perdere per nessuna ragione al mondo.