Ballata dell'odio e dell'amore: la recensione di Gabriele Ferrari
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Ballata dell’odio e dell’amore: la recensione di Gabriele Ferrari

Ballata dell’odio e dell’amore: la recensione di Gabriele Ferrari

Non occorre essere un esperto per rendersi conto dello stato pietoso in cui versa il cinema horror. Gli americani non azzeccano un film da anni, e quando ci riescono lo fanno con un film che spiega come mai gli americani non azzecchino un film da anni. I francesi, che sembravano avere il futuro in mano, si sono persi a inseguire Hollywood: basti guardare il tonfo di Pascal Laugier, passato dall’interessante Martyrs a I bambini di Cold Rock.

Resistono, nel loro splendido isolamento, i soliti inglesi, e anche l’Australia nasconde gemme limpidissime. Ma chi cerca una speranza farebbe meglio a guardare ai Paesi latini, che negli ultimi anni hanno aperto gli occhi sul loro passato (recente e non) e vi hanno scovato una riserva infinita di folklore, grottesco e barocchismi, un immaginario gravido di suggestioni e criminalmente ignorato. Guillermo del Toro, il più commestibile di questa nueva ola (si dirà così “nouvelle vague” in spagnolo?), è la punta di un iceberg che ha prodotto bei film di genere come The Orphanage, il primo [•REC] e Darkness e ci ha regalato autori come Balagueró, Fresnadillo, Bayona.

Oltre, e qui chiudiamo questa lunga premessa, ad Álex de la Iglesia, autore di questo Ballata dell’odio e dell’amore che gli ha regalato il Leone d’argento a Venezia 2010 come miglior regista. Di tutti i latinos citati finora, De la Iglesia è quello apparentemente meno legato all’horror. Eppure il regista di Accion mutante ed El dia de la bestia deve molto al cinema dell’orrore; semmai, il trionfo audiovisivo che è Ballata dice due cose: e cioè che il futuro sta nella contaminazione tra “alto” e “basso”, e ha comprato casa in Spagna.

La storia, senza esagerare con i dettagli. Siamo nel 1937, durante la guerra civile spagnola; in un circo qualunque, un clown qualunque viene rapito da un gruppo di miliziani e costretto ad arruolarsi. Finirà con il massacrare un intero reggimento nemico a colpi di machete. Stacco al 1973, quando il regime di Franco sta avvicinandosi al suo tramonto. Javier, figlio del pagliaccio assassino, segue le orme del padre esibendosi come clown triste; fa coppia con Sergio, il clown allegro che passa le giornate a umiliarlo in nome dello spettacolo. Di sé dice: «Se non fossi un pagliaccio sarei un assassino». C’è anche una donna di mezzo: Natalia, fidanzata di Sergio, che ne sopporta le prepotenze in nome della lussuria più che dell’amore e che – in un’eco del Freaks! di Tod Browning – si innamora anche di Javier, con tutto ciò che ne può conseguire. Ecco l’odio ed ecco l’amore del didascalico titolo italiano; ma è come la storia viene raccontata che conta.

De la Iglesia ha un background nel cinema di genere: si vede, dal modo in cui non si tira indietro se c’è da mostrare l’orrore, il sangue, la violenza e anche il sesso. Ha una visione composita e circense della messa in scena, che a tratti sfiora nel pastiche: in questo rimanda al Lynch più carnale. E come Guillermo del Toro, a cui il regista spagnolo è stato spesso paragonato, riesce a trasformare le allegorie più semplici – il decadente spettacolo del circo e delle sue maschere come metafora di un regime morente – in orge visuali di potenza inaudita, cambiando registro senza soluzione di continuità e con la naturalezza propria dei grandi.

Non è cinema horror, ma è cinema dell’orrore e del grottesco; gli interpreti, tutti bravissimi, vivono sepolti di cerone e sorrisi finti, trasfigurati come Cigni neri (perché sporchi di fango). Non è cinema di genere, ma non si vergogna di farsene influenzare, di citarlo e rimodellarlo. Non è un capolavoro, troppo tracimante per accontentare tutti i palati, troppo sbavato per gli esteti. Ma è grande cinema, coraggioso e realmente indipendente: da Hollywood e dalle storture in cui è precipitato un genere nato per essere di rottura e ormai sedutosi comodamente insieme ai grandi incassatori. È cinema vero e di cuore, e per questo va sostenuto.

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Mi piace
Visivamente ai limiti dell’incredibile ed emotivamente devastante: impossibile rimanere indifferenti.

Non mi piace
Una certa confusione sul finale: prevedibile, ma si poteva limare comunque qualche spigolo.

Consigliato a chi
Ama il cinema.

Voto: 4/5

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