Che The Lego Movie fosse un testo fondamentale per l’attualità dell’audiovisivo era intuibile fin dal suo arrivo sul grande schermo: un lungometraggio d’animazione, a detta dei più riducibile sulla carta a un mero branded content per racimolare soldi dall’ennesima IP di fama mondiale, che diventa un’opera che fa del “giocattolo”, oggetto mattatore del film, un ponte tra finzione e realtà, attraverso gli sguaiati stilemi della commedia metacinematografica. Chris Lord e Phil Miller, il cui acume produttivo è stato nuovamente confermato dalla saga di Spiderverse, hanno segnato un percorso che ha portato numerosi esempi di collaborazioni/collisioni tra case di produzione cinematografiche e aziende appartenenti a differenti branche all’intrattenimento infantile, utilizzando spesso e volentieri il medesimo tone of voice di questo capostipite.
Il caso più eclatante tra questi è senza dubbio Barbie, tanto per la grandezza della proprietà intellettuale in questione, quanto per gli altisonanti nomi coinvolti. Margot Robbie, infatti, diventa la Barbie per antonomasia, dalla vita perfetta in un mondo all’apparenza utopico plasmato a sua misura, insieme alle sue impeccabili omonime e ai loro Ken, capeggiati dal biondo Ryan Gosling. Nel momento in cui la bambola stereotipo inizia ad affrontare pensieri “disturbanti” come la morte, dovrà intraprendere un viaggio verso il mondo reale per recuperare la pacifica stasi del proprio essere.
Greta Gerwig, nome dietro la macchina da presa di Lady Bird e Piccole Donne, prende un topos della propria (breve) filmografia (lo spaesamento esistenziale della protagonista femminile) per inserirlo nel contesto della parodia, guardando indietro alla sua carriera ludicamente e lucidamente. Alla sua prima prova nel territorio del film comico, la regista dimostra di gestire senza errori i tempi di ogni battuta e la costruzione di qualsiasi gag proposta da questo chiassoso carrozzone di rosa vestito. I riferimenti cinematografici risultano chiari e lampanti allo sguardo degli amatori più smaliziati, eppure il loro inserimento in un’operazione così estranea alla loro estrazione crea un cortocircuito estremamente spassoso.
Il caso principale è sicuramente l’opening, presa in giro di 2001: Odissea nello Spazio, ma anche la costruzione degli uffici Mattel, così simile a quella di Playtime di Jacques Tati, conferma un consapevole occhio sul comparto scenografico, essenziale all’interno di un film che, fin dalle prime immagini, non ha nascosto la sua esaltazione della plasticità e dell’artificialità con scopo derisorio. La bambola interpretata da Margot Robbie e Ryan Gosling (il cui Ken si consacra come figura archetipica dei tempi attuali, già impressa nell’immaginario collettivo grazie alla sua divertita performance), si trasformano in due burattini al servizio della regista, che ne schernisce bonariamente fisicità e immagine nella cultura popolare. Barbie, infatti, è proprio un film sull’immagine come facciata e luogo comune, dentro il quale venir intrappolati oppure dietro il quale proteggersi.
La vera fragilità del lungometraggio, pur ostentando fin troppo l’esoscheletro narrativo del già citato The Lego Movie, subentra nei segmenti nei quali l’approccio di ragionevole scanzonatezza lascia spazio a un insegnamento pedante, che lascia allo spettatore l’impressione che lo si stia giudicando dall’alto verso il basso. L’importante lascito di Barbie emerge con maggiore efficacia quando viene affidato alle assurdità dei personaggi, mai fini a sé stesse e sempre protese al fine di mettere alla berlina lo statuto del mondo di oggi. Magari senza la volontà di aprire nuove menti o scuotere troppo le fondamenta, ma per lo meno facendone ridere di gusto il pubblico.
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