“Barriere” (Fences, 2016) è il terzo lungometraggio del regista-attore Denzel Washington.
Ecco come il teatro si immerge nel cinema e resta se stesso senza eccessivi movimenti di macchina e con una delicatezza di ripresa che quasi si erge a pulizia tra lo spettatore e l’adattamento della pièce di August Wilson (che, con , ha sceneggiato il suo testo).
Sequenza iniziale: un camion con due netturbini al lavori, de amici di vecchia data. E’ uno dei tanti venerdì quando Troy Maxson e Jim Bono tornano a casa dalle loro mogli. E Troy ‘ferma’ Jim per una chiacchierata serale. La casa, la vita anni cinquanta, una strada e i suoi ragazzi, una storia e i suoi vicini.
Denzel Washington barcolla sullo schermo con quello stile tra il gusto attoriale e il feticcio di se stesso, come il teatro che rappresenta o la messa in scena del suo corpo. Penzolante, volitivo, gradasso, inutile, appesantito, sottrattivo, magnetico e, alquanto, stantio. E’ un padre che rimescola agli altri per mai guardarsi: è il livore del nulla (in vita) e di una (qualsiasi) dipartita. Che resta oltre il cortile.
Mentore di un sogno americano impossibile, di una famiglia impietrita e di un’appartenenza sempre in prima fila. Tutto sembra inscalfibile. La Patria e il suo marine, la razza e la sua protezione, l’orchestra e la sua musica, il baseball e il football: tutto per non vincere mai. Il colore della pelle segna e chiude ogni strada: oltre le barriere e dentro le barriere.
“Quando finirai il tuo recinto comprerò il frigorifero a mia moglie’ dice Jim a Troy. E quando si chiude la recinzione arriva il vuoto dentro il cortile di casa mentre l’amico di sempre si ritrova a compiangere la sua casa (che non vediamo) vuota del ‘moderno’. Il loro gioco e la loro amicizia si chiudono dentro una sospesa conoscenza.
“Blue” sono i versi di Troy che ammoniscono ogni figlio e qualunque desiderio di volare: una profonda malinconia e una sconfitta certa. Il fratello di Troy trova allegria in un quadro familiare desolato e oppresso. Un film convulso e minimo, demente e minoritario. Un recita senza pubblico.
Finestra con cortile, scale sul retro, cortile con diatribe, ostacoli e perditempo, jazz e gioco: senza oasi e perditempo le parole del padre (padrone) sono ferree ma la vita nasconde un respiro mai domo.
Esplicito scontro, verbale e con le mani: tra Troy e i figli è continua rivalità.
Nullo, inconsistente, sedato, inorridito e morto: ecco che Troy non riesce a fare in vita quello che riesce dal cielo. Il destino di uomo burbero, pesante, ingombrante e salomonicamente fastidioso che riesce a far rimpiangere il suo esserci sempre e troppo.
Cortile come ritrovo e luogo da proteggere, recinzione di ogni destino, schemi imperscrutabili e disegni esterni mai trafitti: i figli sconosciuti e da rimproverare comunque. ‘Sì signore’ vuole il capo.
Esistenza ma doma, vivere fuori dal cortile, amare un’altra, una figlia che cerca qualcuno e una moglie che cerca i suoi figli. Tutto appare primo e dispari.
Scorre il destino dei Maxson, tra scadenze e regole, conflitti e illegittimi, monologhi e menzogne. Immaginiamo (forse) l’oltre della recita ma non si vede nulla. Il set non è mai sul ‘campo’: siamo fuori e lontani. Una pallina penzolante in cortile è la foto dei tempi in palco. Il recinto è ancora senza platea.
Sembra un film logorroico e opprimente, mentre (quasi all’opposto) è una storia di un vuoto finale prima dell’epilogo, della tristezza e di un sermone che all’unisono indicano plagio della vita e addio ad un sogno mai fatto (veramente). La(e) recinzione(i) sono uno sentiero per chiudere ogni atto di ripresa e per riaprire ogni atto successivo fino a che la fine di Troy non è fine per noi che aspettiamo risposte che arrivano solo in parte.
La prova di Denzel Washington (Troy) come quella di Viola Davis (Rose) sono degne di una prova teatrale all’aperto dove melò, retro-retorica, toni e gesti scaraventano, assiduamente, gusto per il racconto e manifesto segno del palco come ovazione di una vita in morte e di un sorriso infausto. La famiglia in essere è solo amore indigesto o meglio affetto rimasto solo nella perdita.
Regia ogivale, alleggerita e solo di sottrazione. Una carrellata finale (minima e avvolgente) schiude ogni parola da un padre in compagnia seduto sullo scalino in cortile. Una carrellata che è uno sguardo svanito verso il piccolo sentiero che va verso la via (datata) di una Pittsburgh (provinciale e leale).
Voto: 7½/10.