Battle of the Year: la recensione di Gianmaria Tammaro
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Battle of the Year: la recensione di Gianmaria Tammaro

Battle of the Year: la recensione di Gianmaria Tammaro

Date a Cesare quel che è di Cesare: è questa, trita e ritrita, la morale che aleggia dal primo all’ultimo minuto di Battle of the Year, la rappresentazione filmica, sul grande schermo, di una delle competizioni più seguite degli ultimi anni: il campionato mondiale di breakdance. Con avversari stereotipati per una squadra, quella americana, che in appena tre mesi riesce laddove altri – forse più esperti, forse più capaci – hanno fallito: restare uniti. C’è il dramma di un uomo che viene scelto, dall’oggi al domani, per allenare la nazionale (che, sia chiaro, nazionale non è) USA; c’è un’arte-sport che viene assottigliata e spogliata di tutte le sue dietrologie sulla cultura e la forza hip hop. E c’è la mamma America, buona e comprensiva, che vuole vedere i suoi figli felici.
Pop, patinato, eccessivo, rumoroso: Battle of the Year, opera terza del coreano-americano Benson Lee, può essere definito davvero in tanti modi. La musica la fa da padrona, idem la danza – la breakdance – e le coreografie spettacolari. Manca, specie nella prima parte, una sceneggiatura precisa, piena ed affidabile; gli attori sono lasciati in balia di citazionismi, luoghi comuni e battute scontate. È con la seconda parte, con l’inizio vero del mondiale di breakdance, che il film di Lee recupera: il problema è che si sveste completamente dei suoi panni di lungometraggio di fiction ed indossa quelli del documentario, della ripresa amatoriale; del concreto. L’hip hop come cultura, come modo di essere, come stile di vita: tutto questo, purtroppo, manca. Oltre il chiaro omaggio agli Stati Uniti, patria di eroi e sportivi, un approccio più profondo al tema, che in altri film di genere c’è stato, latita. E latita per buona parte della pellicola trasformando un mondo intero in una trovata commerciale. Pochi argomenti, tanto fumo ed un arrosto magro: si salvano Josh Holloway, interprete del coach del Dream Team, e Chris Brown, che nei panni di Dante, produttore che investe nel – indovinate – sogno americano, rappresenta perfettamente un mondo fragile, superficiale e poco ragionato come quello dello show business. Si poteva fare di più. Regia semplice, forse troppo pulita: lo spettacolo dell’incredibile al servizio di un messaggio poco incisivo. La direzione della fotografia funziona e trascina via Batte of the Year dal pericolo di essere etichettato come un b-movie.
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Mi piace
La seconda parte, specie le coreografie e gli scontri di breakdance con una dialettica tutta particolare tra gli antagonisti.
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Non mi piace
La sceneggiatura, la regia e (in parte) il cast: film eccessivamente amatoriale, poco ragionato, che più che alla pancia punta dritto allo stomaco dello spettatore.
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Consigliato a chi
Agli appassionati di hip hop e di breakdance: non ci saranno i contenuti, ma dal punto di vista visivo la danza è la protagonista assoluta.
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Voto: 2/5

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