Ben-Hur
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Ben-Hur

Ben-Hur

Se il messaggio del Ben-Hur di William Wyler, vincitore di 11 premi Oscar nel 1959, era l’amore, non bisogna dimenticare che il vero scopo erano i soldi: la casa di produzione MGM navigava infatti in grosse difficoltà economiche e il film, nonostante i giganteschi investimenti in termini di budget, grazie al successo al botteghino riuscì a evitare la bancarotta. Il kolossal, quindi, fu innanzitutto un’operazione commerciale che oggi la MGM sceglie di bissare, libera, per sua fortuna, dal fardello del fallimento e decisa a puntare su un nuovo e meno imponente adattamento, forte di uno spettacolo più leggero e più accattivante per il mercato contemporaneo.

Assegnare la sfida alle mani di Timur Bekmabetov, uno che ha dimostrato di saperci fare con l’azione sia da regista (Wanted) sia da produttore (Hardcore!), non si è rivelata una mossa azzardata: la sua macchina da presa scorre dinamica tra gli effetti in CGI, regalando nei momenti più action inquadrature frenetiche e a volte in soggettiva, giusto per aumentare l’immersione (il linguaggio è anche molto videoludico). In questo senso sono due le scene da ricordare: la battaglia in mare tra le galee, su cui Ben-Hur (Jack Huston) rema da schiavo, è raccontata dall’interno della nave e alterna punti di vista in terza e prima persona, sino all’affondamento che viviamo con gli occhi del protagonista; e la celebre corsa delle bighe nel circo romano, la cui versione originale costò da sola un milione di dollari: ora, vedere Ben-Hur che sorpassa e sperona i suoi avversari, è come assistere a una delle tante corse in macchina di Fast & Furious, con cavalli e briglie a sostituire i motori corretti dal Nos della saga con Vin Diesel. Il montaggio è frenetico e il modo con cui veniamo introdotti nell’arena – panoramiche dall’alto, inquadrature del pubblico in delirio, il sangue che si mischia con la polvere – richiama alla memoria gli scontri al Colosseo di Russell Crowe in Il gladiatore.

Il cuore drammatico del film è il contrasto tra Ben-Hur e Messala (Tobe Kebbel), nell’opera di Wyler amici di infanzia e ora fratelli (Messala è adottato). A differenza della sceneggiatura di Gore Vidal, una delle quaranta che si sono succedute nel ’59, qui non ci sono allusioni a una relazione omosessuale tra i due e l’amore di Messala è rivolto alla sorella di Ben-Hur. La stessa per cui decide di arruolarsi nell’esercito romano così da ripresentarsi alla sua famiglia con un rango sociale più alto (a suo giudizio indispensabile per essere guardato con altri occhi dalla ragazza e – soprattutto – da sua madre), ma anche da nemico, perché dalla parte di conquistatori che sembrano conoscere la violenza come unica soluzione. Il fatto che non abbia grosse remore nel condannare alla prigione e alla schiavitù coloro che gli sono sempre stati più vicini, poi, spinge la narrazione sul binario del revenge movie più classico, che trova l’apice nel duello con le bighe.

È una versione che non può e non vuole essere a sensazione come il film di 57 anni fa e l’intrattenimento vince su tutto. Lo dimostra (anche) la gestione del finale, diverso dall’illustre predecessore: in pochi minuti si passa dalla tensione della corsa alla dolorosa Via Crucis di Gesù (Rodrigo Santoro), che conduce a un mieloso happy end che cancella con un colpo di spugna l’odio e il rancore precedenti. Tutto troppo semplice, anche se frutto del profondo perdono cristiano al centro della Parola del nazareno.

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Mi piace
È un reboot ad alta velocità, che gioca secondo le regole dell’action più dinamico.

Non mi piace
Il dominio dell’intrattenimento priva il film dei tanti significati simbolici e dello spessore drammatico del predecessore.

Consigliato a chi
Considera il Ben-Hur con Charlton Heston un mattone pesantissimo e ne cerca una versione pop.

Voto: 3/5

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