Quando una via sembra a tutti impossibile, è necessario fermarsi? Non l’ha fatto Enrico Berlinguer, segretario negli anni Settanta del più importante Partito Comunista del mondo occidentale, con oltre un milione settecentomila iscritti e più di dodici milioni di elettori, uniti dal desiderio di realizzare il socialismo nella democrazia.
Berlinguer – La grande ambizione, il film di Andrea Segre che ha aperto la 19esima Festa del Cinema di Roma, ne racconta la parabola biografica e l’esperienza politica partendo dal 1973, quando sfuggì a Sofia a un attentato dei servizi bulgari, attraverso le campagne elettorali e i viaggi a Mosca, le copertine dei giornali di tutto il mondo, tra cui quella prestigiosa del Time, e le rischiose relazioni con il potere, fino all’assassinio nel 1978 del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro.
Prendendo le mosse da una frase in esergo che cita direttamente Antonio Gramsci, fondatore del partito comunista italiano (“Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è indissolubile dal bene collettivo”), Berlinguer – La grande ambizione è un racconto cinematografico che si muove con passo compassato, didattico e nostalgico nella rievocazione dell’esperienza di un grandissimo leader politico del XX secolo: interseca pubblico e privato, mostrando anche il Berlinguer marito e padre di famiglia, e intreccia ricostruzione di fiction e uso diffuso, a tratti illustrativo e in altri casi decisamente più poetico, di materiali d’archivio, che vanno a puntellare una narrazione molto spesso orale, affidata quasi tutta alla parola di Berlinguer, ai suoi comizi e interventi.
Naturalmente nella sceneggiatura firmata da Segre con Marco Pettenello si concede molto spazio al racconto di come il capo del PCI cercò di conciliare le istanze del Partito alla stagione di dialogo con la Democrazia Cristiana, che sarebbe confluita nel cruciale “compromesso storico”, momento capitale e di svolta per la storia politica italiana. Rispetto al Berlinguer silente, scuro in volto e volutamente abbozzato di Esterno notte di Bellocchio, che non era troppo tenero con la sua figura nel raccontare i retroscena del sequestro e del rapimento Moro, qui è il suo totem a scandire la narrazione di una stagione che non smette di suggestionare i narratori cinematografici e di essere affrontata sul grande e piccolo schermo.
Elio Germano gli presta corpo e voce in un’interpretazione che cerca la via, personale e non direttamente mimetica, dell’emulazione e del re-enactment di inflessioni di voce, posture e gesti senza sconfinare, fortunatamente, nell’imitazione pura e semplice o nella macchietta. Intorno a lui gravitano molte figure storiche presentate direttamente con delle didascalie che ne evocano nomi e cognomi: tra i tantissimi spiccano ovviamente, nonostante il minutaggio ridotto, il Giulio Andreotti di Paolo Pierobon, che ne riproduce in maniera sorprendente l’eloquio mellifluo, sornione e acidulo evitando anche lui qualsiasi caduta nel grottesco, e l’Aldo Moro di Roberto Citran, che gli conferisce un’aura meno solenne e risonante rispetto alle incarnazioni cinematografiche precedenti e lo rappresenta in maniera quasi serafica, umile e distesa, con una sorta di sorriso arcaico stampato in volto e un’evidente ammirazione per ciò che Berlinguer riuscì a fare col suo partito.
Sul versante privato, si è molto attenti a sottolineare i sacrifici di Berlinguer sul piano personale, la sua dedizione al lavoro (e ai suoi iscritti, lavoratori con una coscienza di classe) e l’inaspettato salto da quello che poteva essere un “grigio funzionario di partito”, che era anche colui che credeva di sposare la moglie Letizia Laurenti, interpretata da Elena Radonicich, e che invece divenne una figura cruciale del Novecento italiano, ai cui funerali parteciparono un milione e mezzo di persone.
Interessante è anche notare, specie rispetto ai mortificanti, retorici e inevitabili confronti col presente, come Berlinguer, da politico vecchio stampo, sia soprattutto consapevole della necessità di un dialogo che non sconfini nella gazzarra e nella contrapposizione strutturale e ottusa, anche al cospetto di posizioni radicali e opposte. Vediamo il personaggio osservare questa postura non solo nelle stanze dei bottoni, ma anche al cospetto della consorte, cattolica (che lo punzecchia quando cita il Vangelo che se fosse Marx), e dei figli, che come molti adolescenti di ogni ordine e tempo, vorrebbero assestarsi su posizioni più radicali ed estreme rispetto ai temi caldi dell’epoca, dal Vietnam alla violenza esercitata ovunque negli anni di piombo.
Ne viene fuori in definitiva un ritratto sobrio, intimo, che a tratti sconta la rigidità della sua impostazione cinematografica dalle maglie piuttosto strette ma sa anche come rilanciare l’icona Berlinguer tra utopia e resistenza attiva (e vigile) rispetto alle istanze e alle trasformazioni del potere nelle sue forme più subdole e ciniche.
Foto: Vivo film/Jolefilm/Rai Cinema
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