Un’immagine digitale dove ci si avvicina sempre di più alle parti in causa, ovvero un giovanissimo soldato americano, Billy Lynn (Joe Alwyn), mentre stringe a sé il suo commilitone e mentore, il sergente Virgil Shroom (Vin Diesel), appena caduto in uno scontro a fuoco. Inizia così, Billy Lynn – Un giorno da eroe, l’ultimo film di Ang Lee: con un zoom accelerato e progressivo su dei pixel che si fanno sempre più ravvicinati e sgranati, fino a trasformare un atto di eroismo consumato dal protagonista durante il conflitto iracheno in un simulacro accecante, nella copia di una copia, in un’icona al quadrato. Un gesto celebrato e insieme privato di senso, santificato e allo stesso tempo declassato: perché, quando si parla di immagini digitali, dopo l’11 Settembre, avvicinarsi e vedere meglio non sempre significa vedere di più, né tantomeno capire tutto. Anzi.
Tutto, nel film di Ang Lee, tratto dall’omonimo romanzo di successo di Ben Fountain, gira intorno a tale stimolante e problematica contraddizione, alla doppia faccia di una medaglia più che mai ambigua: la celebrazione dell’eroismo americano che attraversa il film non potrebbe avere dei contorni più ambivalenti e sconcertanti, a metà strada tra la satira e la parodia ora volontaria ora, in apparenza, involontaria. Billy Lynn si muove a ridosso di questo sottile e allarmante equilibrio ed è proprio tale sospensione la massima ragione del suo densissimo fascino e del suo enorme interesse: da non americano, perlomeno di nascita, Lee si concede il lusso di sfregiare in maniera affilata e sardonica i simboli dell’immaginario bellico e mediatico statunitense, mostrandone i paradossi, i compiacimenti, gli artifici, i lati più orgogliosamente ridicoli. Con beffarda sincerità.
È dunque piuttosto stratificato e spiazzante, Billy Lynn – Un giorno da eroe, talvolta perfino irritante e non per tutti i gusti, a partire dalla confezione formale: Lee gira in 3D, 4K a 120 fotogrammi al secondo (la normale riprese cinematografica non va oltre i 24), fornendo alle sue immagini accelerate una dose di istantaneità che sa sempre di immediatezza e di verità. Un’autenticità che però cozza tremendamente, ed è il cortocircuito che sta alla base del film tanto da esserne il cuore pulsante, con la teatralità rampante e spettacolare della maratona mediatica che è stata messa in piedi per omaggiare questo diciannovenne eroe nazionale, rimpatriato per due settimane nel corso del Ringraziamento del 2004. Un victory tour a tutti gli effetti (“Strano essere celebrati per il giorno peggiore della tua vita”, dice Billy), dove occorre sopra ogni cosa nascondere il pianto ed essere smaglianti e imperturbabili a favore di camera. Col petto in fuori, e gli occhi rigorosamente asciutti (forse).
Diviso tra war movie e metacinema, quello di Lee è un film-meccanismo incentrato a tutti gli effetti su un dietro le quinte che si fa spettacolo corale e performance da Super Bowl, tra fuochi d’artificio ed esibizioni delle Destiny’s Child, tra stadi pieni e trombe squillanti, tra cheerleader e magnati. Con le scintille di una festa nazionale che si sostituiscono, letteralmente e per mezzo di associazioni visive velocissime, agli spari del conflitto mediorientale. La messa in scena di Lee calca la mano su tale compresenza di vitale e di mortifero, alternando senza soluzione di continuità il baratro della disumanità bellica e l’autoassoluzione sconcertante di una cerimonia pirotecnica in uno stadio stracolmo. Il backstage e la diretta frontale coincidono, nel tritacarne dell’entertainment. La vita e la morte, naturalmente, anche.
“It’s all about ideas”, dice a Billy il personaggio di Steve Martin, al colmo del paradosso. E in effetti Billy Lynn è un film cerebrale e straniante che mette in scena, all’alba dell’era Trump e senza dichiararlo esplicitamente, il funerale dell’immaginario americano e della sua idealità, un patrimonio collettivo nel quale la story, soprattutto quella veicolata dai media, avrà sempre un peso maggiore dell’idea. Continuando ad essere, nel peggiore ma anche nell’unico dei mondi oggi possibili, l’unica cosa che conta.
Mi piace: la dimensione ambigua e disturbante del film
Non mi piace: qualche eccesso stilistico in odor di compiacimento da parte della regia, il più delle volte però perfettamente funzionale al racconto e al discorso
Consigliato a: chi ha amato Foxcatcher – Una storia americana di Bennett Miller e American Sniper di Clint Eastwood
Voto: 4
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