“Citarsi addosso”: quando Hollywood o la Broadway dell’alleniana NY s’analizza criticamente risulta sempre un po’ goffa e ogni volta, sotto il metacinema e il metateatro, lascia trasparire inesorabile il chissenefrega dell’autoreferenzialità. Virtuosismi utili a incantare i cinefili e a depistarli dalla vacuità del contenuto. “Risposte banali ai voli pindarici”, “il regista [che] sembra limitarsi ad accatastare ottime idee come fossero legna per il falò, senza mai incendiarle”, “i personaggi e gl’argomenti [che] rimangono in sospeso, e [quando] si potrebbe dire qualcosa di più arriva un bel movimento di macchina o una scena d’impatto che svia l’attenzione”, il set ch’ambisce supponente a farsi microcosmo significativo dell’intero universo. Ma questa è la costante d’Iñárritu, con o senza Arriaga: narrare facezie ammantate di furbate, prima sceneggiature centrifugastorie altrimenti da Medioman (cit.), adesso cast allstar, overacting, fotografia di Lubezki fresco d’Oscar proprio per l’abilità nei piani-sequenza, molti “cortocircuiti, alcuni troppo compiaciuti tanto da sembrare fini a sé stessi”, e vengono di nuovo rifilate le due ore di luoghi ed ego comuni. “Ma no, dài, stavolta Iñárritu fa satira e pure su di sé, s’autodenuncia, entra nel suo stesso tritacarne.” Punto e a capo: e che avrebbe mai Iñárritu di così speciale da credersi una soggettività interessante? Colpi bassi e visionarietà icaro-sanremese (1958): “Volare… oh oh… cantare… oh oh oh oh… nel blu, dipinto di blu, felice di stare lassù.”
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