Ollie Cross (Tye Sheridan), un giovane originario del Colorado, lavora a New York, nell’area East della città, come paramedico. Il suo lavoro e quello dei suoi colleghi è salvare vite in condizioni di estrema emergenza, in perenne frenesia da pronto intervento. Tante volte riescono a portare termine il loro obiettivo, ma in tanti altri casi la missione purtroppo fallisce e la sensazione di scoramento e impotenza è devastante. Accanto a lui c’è Rutkovsky (Sean Penn), paramedico più anziano ed esperto, che dopo tanti anni sul campo sembra aver sviluppato una corazza, la cosiddetta “pellaccia”, che però non cancella il disagio psicologico di una professione prostrante, sia fisicamente che psicologicamente.
Black Flies, adattamento del romanzo 911 di Shannon Burke, ci immerge immediatamente nell’inferno di una Grande Mela livida ed elettrica, in cui i neon delle ambulanze, le luci delle torce e i rumori delle sirene si confondono vorticosamente con i corpi e i volti, quello di Ollie in particolare. Potrebbe sembrare il preludio a un robusto thriller urbano animato da una particolare attenzione alla forma e alla stimolazione audiovisiva (il regista Jean-Stéphane Sauvaire dopotutto è stato assistente di Gaspar Noè, il cui spirito provocatorio in Black Flies serpeggia in forma purtroppo più “seriosa”), invece è solo il perfetto biglietto da visita di un prodotto che non ha altri interessi oltre all’estetizzazione selvaggia e al puro lavoro di superficie, compiaciuto e indisponente.
Può venire in mente ovviamente Al di là della vita di Martin Scorsese, nelle intenzioni e nello spirito qui ampiamente saccheggiato, ma anche certi incubi allucinati di Abel Ferrara, declinati in questo caso in chiave meno brutta, sporca e cattiva e più modaiola e ammiccante, al netto di tutte le brutture che vengono riversate addosso allo spettatore. Black Flies ha però, nella sostanza, ben poco di scorsesiano e non si respira al suo interno alcuna tensione spirituale, filosofica o tantomeno cristologica, come invece accade sempre nei film del regista di Killers of the Flower Moon, scritto da Paul Schrader: tanto la parabola della sceneggiatura quanto l’apparato di immagini al suo servizio mirano esclusivamente all’epidermide, allo shock facile, al campionario di sporcizia e abbrutimento il più spinto possibile sul pedale dell’acceleratore (c’è anche una madre malata di AIDS e in overdose, che partorisce il figlio in condizioni terribili).
Tutte le persone che Ollie e Rutkovsky incontrano sono caratteri sgradevoli e spesso danno loro contro, oscillando dalla violenza verbale alla xenofobia: più la narrazione prosegue, più il film vuole indignarci a tutti i costi per la bestialità umana che i paramedici devono fronteggiare. Sebbene sia tutto ispirato a situazioni realmente accadute (e non è difficile crederlo, alla luce dell’ampio tessuto di disperazione ed emarginazione del sottobosco di NY), si fa fatica a non vedere in questo accumulo, che dal punto di vista stilistico è terribilmente grezzo e tamarro, un’intenzione strumentale. Per rendere l’idea, non si contano le inquadrature di Sauvaire su tatuaggi tribali di tossicodipendenti e spacciatori e corpi sformati e disfatti, dei quali il suo occhio è insopportabilmente voracissimo.
Un personaggio femminile, che sulla carta poteva avere spazio in Black Flies, c’è (l’interesse amoroso ed erotico di Ollie), ma la vediamo impegnata solo in amplessi patinati replicati in serie. Le psicologie dei personaggi sono incoerenti, di carta velina quando non addirittura di cartapesta, e anche l’amicizia scivolosa, ambigua e contraddittoria tra Ollie e “Rut” guadagna davvero la ribalta nel racconto solo quando al copione serve un trauma narrativo scatenante e senza ritorno per far saltare il banco in vista del finale; anche quello in verità un po’ ipocrita e di compromesso: il classico colpo al cerchio e alla botta che non sa scegliere di fatto tra il salvacondotto consolatorio e il baratro della disperazione senza ritorno.
Di discreto da vedere rimane, di fatto, solo il lavoro di Sean Penn, che recita sempre più con un maschera di durezza un po’ attonita stampata in faccia, come fosse stordito dal cortocircuito tra le sue azioni e i suoi pensieri, in attesa di sciogliere dei nodi interiori inespressi. Un lavoro di recitazione interessante, che però non è sostenuto adeguatamente dal film, il cui tono generale è assolutamente ben riassunto dalla presenza nel cast dall’ex pugile Mike Tyson, impegnato a timbrare il cartellino con la sua presenza nel piccolo ruolo del superiore di uno dei due protagonisti.
Foto: Sculptor Media/Force Majeure/Projected Picture Works
Leggi anche: Sean Penn si scaglia contro l’intelligenza artificiale: «È un’oscenità umana»
© RIPRODUZIONE RISERVATA