Il razzismo, in America, è un problema ancora così radicato da aver spinto il regista Mike Binder a portare sul grande schermo una vicenda personale per sensibilizzare l’opinione pubblica. Black or White riflette sulla possibilità di convivere all’interno dello stesso ambiente superando i pregiudizi incomprensibili del colore della pelle e delle etnie di appartenenza.
L’avvocato wasp Elliot Anderson (Kevin Costner) perde improvvisamente la moglie e si ritrova a dover gestire la nipotina birazziale Eloise (Jullian Estell, qui nel suo primo ruolo in un film) con la bottiglia spesso a portata di mano. Elliot però non è il solo a volersene prendere cura: anche la famiglia paterna di Eloise, capitanata dalla nonna Rowena (Octavia Spencer), la reclama per l’affidamento esclusivo. Il padre della bambina è infatti Reggie, un tossicodipendente che aveva lasciato la figlia di Elliot subito dopo il parto, e che ancora non si è riabilitato. Dalla disputa, sfociata subito in tribunale, scaturisce una battaglia che fa emergere i vecchi pregiudizi che entrambe le famiglie hanno alimentato nel tempo, trincerandosi dietro le loro convinzioni e negandosi qualsiasi dialogo. Ma l’amore verso Eloise da parte di entrambi gli schieramenti sarà l’occasione per ripensare alle proprie opinioni e per smettere di guardare il mondo soltanto in bianco e nero.
Un plot prevedibile e un lieto fine buonista, preceduto da un discorso strappalacrime sull’uguaglianza, che saprebbe commuovere il cuore più indurito, non fanno certo di Black or White un film da approvare a pieno. Ma c’è un dato, nel mercato domestico, quello americano, dove la pellicola è uscita lo scorso 30 gennaio, incassando fino a ora 20 milioni di dollari, a rappresentare un elemento significativo di riflessione.
Un segmento di pubblico dall’identità ben definita (per il 78% donne oltre i 25 anni), non di nicchia ma nemmeno generalista, ha decretato che Black or White è un buon film, con voto medio A-. E non ha tutti i torti: pur masticando con una certa approssimazione i luoghi comuni più noti del binomio bianco-nero, un’opposizione che schiera tanto fattori socio-economici contrapposti (la ricchezza che è, in fondo, un involucro vuoto e di solitudine vs la generosità e la solidarietà della comunità afro), tanto modelli di vita e visioni del mondo agli antipodi, il lavoro di Mike Binder risponde al bisogno, da sempre interno alle dinamiche del cinema hollywoodiano più classico, di un racconto edificante, che presenti un problema negli accadimenti più elementari e lo risolva nel migliore dei modi, senza vincitori né vinti, ma con una morale che metta tutti d’accordo e che pacifichi su un tema di ordine sociale.
Si può non condividere, ma l’industria dei sogni, calandosi questa volta all’interno di un contesto tutto sommato realistico, pur abitato in modo eccessivo da generalità grossolane, vuole mettere in scena un problema sociale con una finalità morale. Certo, la costruzione narrativa venata di comicità è approssimativa e lontanissima tanto dal racconto di denuncia, tanto da una rappresentazione realmente conflittuale, l’ironia è poco raffinata e a tratti i personaggi sono talmente macchiettistici da risultare poco credibili. Ma l’apprezzamento generale da parte del pubblico rivela, ancora oggi, che il cinema è, sotto certi aspetti, un medium di massa: quello che risponde al bisogno sociale di armonizzare gli opposti, di costruire un’impalcatura condivisibile, di esorcizzare la paura, di dare vita a un immaginario comune.
Almeno nelle intenzioni, con il suo racconto di zucchero, Mike Binder riesce nel compito più hollywoodiano di tutti. Merito anche di Kevin Costner che, pur con qualche momento di incertezza, sa rischiare nel mettere in scena il negativo del suo sé cinematografico: quella bellezza seducente di cui ora, con il passare del tempo, è rimasto un corpo adulto. Quella sicurezza del genotipo che, ora, appare in tutte le sue fragilità e il suo vuoto esistenziale.
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Mi piace: Kevin Costner che si mette in gioco. La capacità di commuovere, anche se con il più prevedibile e atteso dei discorsi.
Non mi piace: il predominio dello stereotipo sulla rappresentazione realistica.
Consigliato a: un pubblico femminile per una serata di intrattenimento accompagnata dal fazzoletto.
Voto: 1/5
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