Il regista parla del film: “Sono sempre stato attratto dall’esplorazione di ciò che la costante minaccia del pericolo causa alla psiche d’una persona e volevo fare un film sul terrore d’essere intrappolati sott’acqua – e pensavo ch’esiste una paura generalmente associata ai sottomarini a causa della loro inerente claustrofobia. Ho pensato anche a come i loro equipaggi divengano una famiglia. Possono abituarsi talmente tanto al fatto d’essere insieme entro i confini del sottomarino che quando ne escono sono delle persone piuttosto disfunzionali. C’è gente ch’è più felice in mare, e gente ch’è più felice in un barattolo, perché ci stanno meglio, invece nel mondo reale si sentono persi. È stata questa l’ispirazione per i personaggi del film, così come la nostra curiosità per ciò che fanno i marinai dei sottomarini – passare mesi e mesi in un sottomarino… Così ho pensato: ‘Facciamo un film in un sottomarino’.” Ma anche no. Con simili presupposti “Black Sea” non poteva non affondare in un bicchier d’acqua colmo di noia coi suoi personaggi taroccati e farlocchi: e chi si sarebbe dovuto salvare se non il 18enne con l’ecografia del proprio nascituro? E chi sarebbe dovuto morire se non l’avido capitalista, lo psicopatico, il malaticcio, la banda di pirati in cerca di rivalsa? Questo era il Kevin Macdonald dell’eccellente “L’ultimo re di Scozia”, poi persosi nelle profondità abissali d’una pozzanghera senz’alcuna sorpresa, priva del minimo imprevedibile colpo di scena. “Grande cinema d’avventura”? “Thriller efficiente ben congegnato” (RT)? Ma dove, come, quando, perché? Consigliato soltanto al solito drappello di cinefili amanti d’atmosfere sotto i mari e d’innumerevoli rimandi citazionistici (“Phantom”, “U-Boot 96”, “Caccia a ottobre rosso”, “K-19”, “Allarme rosso”, “U-571”, “Abyss”, “Sfera”, “Alien”…).
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