PREMESSA
Nel 2006, quando uscì Miami Vice, molti non ne capirono la portata. Mann stava portando la sua ricerca sul (neo) espressionismo digitale allo zenit. Mentre il resto di Hollywood cercava di far assomigliare il cinema digitale a quello in pellicola, lui metteva in atto una rifondazione “digitale” dei generi – e in particolare del noir – usando tutti i luoghi comuni a disposizione e le peculiarità “grezze” del mezzo. D’altra parte, visto che i film hollywoodiani sono un prodotto industriale, quindi omologato, la comprensione e l’analisi di un blockbuster d’autore dovrebbe riguardare soltanto quello che rimane quando hai tolto al film ciò che condivide con il resto della produzione industriale. E l’uso massiccio dei luoghi comuni del noir serve da sempre a Mann proprio per questo: far sì che, tolto tutto il resto, emerga in modo esatto il suo sguardo, che è poi quello dei suoi personaggi.
BLACKHAT
E arriviamo a Blackhat, un thriller su un hacker che viene fatto uscire di prigione per incastrarne un altro, e lo insegue per mezzo mondo, assieme alla donna di cui si innamora e che per lui rischia tutto ciò che ha. Un film in cui la metà di quello che senti è un cliché, e l’altra un tecnicismo semi-comprensibile.
Di cosa stiamo parlando allora? Perché il film è un capolavoro? Proviamo ad allontanarci un attimo, a togliere tutto quello che va tolto e a guardare il resto.
Se con l’avvento della TV e del postmoderno, negli anni ’80, le immagini non rimandano più alla realtà, ma ad altre immagini, il paradosso oggi è ancora più esteso: sono le informazioni che non rimandano più alla realtà, ma ad altre informazioni, in un circolo chiuso, di cui i social network sono una sineddoche.
Attraverso i computer (che, mostra ripetutamente Mann, sono supporti fisici su cui viaggia la luce) un’informazione fatta di cifre (codici informatici) si muta in un’altra informazione fatta di cifre (valori economici). Ci vuole un intero film, in cui gli agenti di questa trasformazione – hacker, programmatori, poliziotti che si occupano di crimini informatici – cercano un luogo a cui guardare (l’attenzione agli sguardi è ossessiva), perché le informazioni, che hanno fino a quel momento ingabbiato tutto – trama, spettacolo, spettatore, personaggi (occhio all’acquario…) -, palesino una realtà, un luogo geografico (ed ecco miniere, pozzi, immense vallate). Alla fine della ricerca, lo sguardo si apre, si appoggia/riposa, la luce cambia, è giorno. Si respira.
Ovvero, ancora: non si può osservare l’informazione all’interno di un computer – nemmeno smontandolo, perché, banalmente, un computer smontato non funziona più, non porta più alcun significato. Si possono invece guardare delle colline, un grattacielo, le persone che amiamo. Tutto qui.
L’AZIONE
Difficile spiegare Blackhat in modo diverso, perché il cyber-thriller nella versione di Micheal Mann questo è: la ricerca di un punto di fuga, il ritorno alla realtà fisica di un personaggio – Hathaway, un cyber criminale – che inizia il film seppellito in una cella minuscola e attaccato allo schermo di un cellulare, senza amici e senza una donna, e lo finisce, libero e innamorato, con una resa dei conti che avviene in una grande piazza aperta, in cui uomini vestiti tutti uguali si muovono in linee rette indifferenti al massacro che va in scena, come luce sui circuiti stampati. Qui Hathaway, corpo a corpo, affronta il nemico.
Ci sono cento altri momenti e simboli nel film che dimostrano questo percorso, c’è una precisione maniacale, e un romanticismo, un’umanità, una semplicità (figlia della tecnica e del rigore), infiniti. E ci sono, se è per questo, anche tre scene d’azione, le uniche tre del film, che sono tra la più belle che io abbia mai visto.
Non si può guardare il cinema di Mann per ciò che è uguale a tutto il resto: ma quello che è diverso, è senza paragoni.
Leggi la trama e guarda il trailer
Mi piace:
Noir romantico e teorico, con almeno tre sequenze action da restare a bocca aperta
Non mi piace:
Il film si “schiude” pian piano, richiede attenzione e comprensione dei cliché
Consigliato a chi:
A quelli che vogliono scoprire il vertice autoriale più alto del noir hollywoodiano
Voto: 5/5
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