Nel 1992, il poliziotto afro-americano Ron Stallworth si infiltrò insieme ad un suo collega nel capitolo del Ku Klux Klan di Colorado Springs. Riuscì quasi a scalarne i vertici. Il nuovo film di Spike Lee, in concorso a Cannes lo scorso maggio, inizia con una didascalia inequivocabile, a caratteri maiuscoli, cubitali: DIS JOINT IS BASED UPON SOME FO’ REAL, FO’ REAL S—. Lo slang è palese, la sostanza altrettanto: è una storia vera.
Segue Alec Baldwin, con un monologo in camera sulfureo e sferzante. Sparare tutte le proprie cartucce con urgenza e con veemenza, dopotutto, è da sempre la massima cifra espressiva del regista afroamericano, che ne ha fatto il proprio ossigeno anche negli anni e nei momenti meno ispirati. Stavolta, però, anche se gli eventi narrati risalgono già a mezzo secolo fa (e fa un po’ impressione dirlo), c’è di mezzo l’America di oggi, quella che si è forzatamente affidata a Trump e che sembra ancora vivere in apnea.
In pieno shock per il passaggio repentino e brutale dal primo presidente afroamericano della sua storia a The Donald, dei cui slogan il film è costellato e imbevuto, a cominciare da quell’America First accompagnato da un eloquente carrello su una manciata di volti neri, che è insieme sberleffo spassoso e denuncia amara. Il titolo, come il purtroppo enormemente sottovalutato Chi-Raq, è un altro gioco di parole, mentre l’epilogo si ricollega anch’esso ai titoli di testa del film precedente, dedicati alla strage di neri nelle periferie americane da parte della polizia razzista.
Una conclusione, quella di BlacKkKlansman, dove la bandiera americana scolorisce, l’eco dei discorsi di Trump si intreccia al repertorio delle stragi del 2017 e ovviamente a Charlottesville. Le stelle e le strisce si riducono, purtroppo, a una questione di bianco e nero, di bianchi e neri, di bianchi contro neri. Ancora una volta e nonostante tutto.
Con BlacKkKlansman il regista di Fa’ la cosa giusta (monito che qui si rinnova) realizza il suo film più ambizioso e organico, nella forma e nei contenuti, da molto tempo a questa parte. Un Inside Man politico, che parla, alla lettera, di un infiltrato e si gioca tutto nella fusione di commedia e poliziesco, un po’ ammansita rispetto al cuore della sua denuncia, ma con un bel po’ di momenti sinceramente divertenti e un paio da risate a crepapelle.
La retorica, inevitabile, incorporata – che parlare di neri americani sia sempre un parlare di corpi l’ha sentenziato meravigliosamente lo scrittore e giornalista di colore Ta-Nehisi Coates nella sua struggente e disarmante lettera al figlio, Tra me e il mondo – incontra la scottante attualità americana, con vista sui prossimi Oscar. Il consiglio spassionato per i più cinefili è di guardare con particolare attenzione la sequenza con protagonista Nascita di una nazione, il film di Griffith che servì come grancassa e megafono per il Ku Klu Klan e che il presidente USA di allora, Woodrow Wilson, bollò non a caso come «la storia scritta con la luce».
Ma c’è anche tanta bigiotteria blaxploitation (il cinema fatto da neri per i neri), con Spike Lee che strizza maliziosamente l’occhio al “nemico” Tarantino, alla Pam Grier di Jackie Brown, brandendo però il megafono della cultura del black power, anche lui da insider. Ma per fortuna non lascia per strada nemmeno la scena del linciaggio di Jesse Washington del 1916 da parte del Ku Klux Klan, forse la più doverosa, la più bella in assoluto del film.
Brilla meno Adam Driver, i cui tempi comici, altrove perfetti (l’Adam di Girls di Lena Dunham non l’abbiamo ovviamente più dimenticato) sono qui un po’ appannati, mentre John David Washington, figlio di papà Denzel, non avrà il carisma incendiario del padre, che con Spike Lee ha scritto pagine memorabili di cinema, ma ha comunque il sapore di una scoperta. La raccomandazione collaterale al film, invece, per provare a mettere a fuoco in maniera altrettanto buffa e indispettita l’America di Trump, è naturalmente la serie Atlanta di Donald Glover, anch’essa figlia degli stessi tempi saturi e incerti di cui BlacKkKlansman si fa carico.
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