C’era una volta “Blade Runner”, un film di fantascienza che quasi tutti hanno visto ma che pochi ricordano con affetto, un classico che, chiedendo in giro, ho scoperto essere poco amato.
Ma la memoria inganna, perché riguardandolo oggi, specialmente nella versione definitiva “The Final Cut” voluta dal regista Ridley Scott, si può riscoprirne gli aspetti più emozionanti, filosofici e malinconici, rimanendo a bocca aperta di fronte alle atmosfere davvero uniche dell’ultimo grande film girato senza effetti speciali digitali, ma con cura maniacale nonostante i grandi problemi di budget.
Anche se ha ispirato infinite variazioni di distopie che si svolgono in megalopoli opprimenti, da “Il Quinto Elemento” a “Ghost in the Shell” potremmo definire “Blade Runner” il film noir futuristico per definizione.
Bisogna riconoscere che il ruolo di Harrison Ford è uno dei migliori della sua longeva carriera ed è commovente l’interpretazione di Rutger Hauer che, nonostante sia un cyborg assassino, si guadagna la propria umanità poco prima di morire pronunciando la celeberrima frase «ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare..»
E’ il film che ha cambiato la nostra visione del futuro, ed ecco il passo successivo.
Trentacinque anni dopo l’originale, esce adesso il seguito che nessuno si aspettava sarebbe arrivato.
Qualcuno potrà storcere il naso all’idea, perché di certo c’è sempre un rischio nel riprendere una storia così definita e narrare in qualche modo ciò che è successo dopo, visto anche lo stato di sospensione e incompiutezza che il finale voluto dal regista lasciava.
Ma vedendo ciò che è riuscito a fare Denis Villeneuve con la benedizione di Ridley Scott, rimasto in veste di produttore, c’è di che gioire e augurarsi a vicenda un buon 2049!
Aderendo all’invito della produzione di svelare poco o niente della trama, per non rovinare le tante rivelazioni allo spettatore, ci limiteremo a raccontarvi il minimo indispensabile per affrontare al meglio l’esperienza cinematografica di “Blade Runner 2049”:
Trent’anni dopo l’avventura del detective Deckard, in un futuro ancora più cupo, un nuovo agente della divisione Blade Runner della polizia di Los Angeles dà la caccia ai vecchi modelli di replicanti per eliminarli.
Il ligio agente K, che ha il volto del divo contemporaneo Ryan Gosling, inizia un’indagine che scaverà nella storia precedente al blackout informatico del 2022, affrontando dilemmi sul potere dei ricordi e sull’esistenza stessa, in un sentiero misterioso che lo condurrà sulle tracce del suo predecessore.
Lo stile creato sulla carta dallo scrittore Philip K. Dick, che era rimasto incantato dalla sua prima trasposizione sul grande schermo, è pienamente rispettato, solo non ci chiederemo più se “gli androidi sognano pecore elettriche”, bensì se ci si può innamorare di un’ app!
“Blade Runner 2049” però, proprio come l’originale, è un film per niente facile da seguire, perché mescola le carte di continuo e spiazza lo spettatore, accende la discussione all’uscita della sala e rimane in testa a lungo.
Nonostante un livello superficiale che può sembrare banale, la sceneggiatura di Hampton Fancher (lo stesso autore del primo) e di Michael Green è più profonda e sfaccettata di quanto si percepisce sul momento, perché sotto lo strato fisiologico di fanservice c’è ancora un continuo, ininterrotto interrogarsi su cosa è reale e cosa artificiale, su cosa rende davvero vivi.
Nel rispettare le impostazioni del canone, il film ne riprende, ma ne amplia e completa lo spettro, è cioè anche qualcosa di “altro” rispetto all’originale, in alcuni momenti è persino difficile definirlo un sequel, a parte gli ovvi riferimenti a personaggi conosciuti.
Non è difficile capire perché il regista Denis Villeneuve abbia avuto un certo timore reverenziale a lasciarsi coinvolgere nel progetto, ma una volta dentro si è giocato tutto e ha vinto, componendo immagini che sono già indimenticabili.
Alla ormai classica pioggia incessante che bagna gli infiniti panorami urbani, pieni di pubblicità luminose ed animate, si accompagnano la neve che cade anche su Los Angeles, i toni caldi delle deserte rovine di Las Vegas tra i fantasmi olografici di Elvis e Frank Sinatra, per finire con le onde di un mare minaccioso: miracoli visivi e stilistici di un futuro in cui l’umanità ha ormai condannato il clima del pianeta.
Villeneuve oggi è uno dei cineasti più interessanti in circolazione, è arrivato alla fama senza sbagliare un colpo, grazie a film incantevoli come “Prisoners”, “Enemy”, “Sicario” e soprattutto “Arrival”.
Il suo lavoro con gli attori non è meno accurato dei movimenti di macchina: sull’apparente inespressività di Ryan Gosling egli ha cucito il ruolo del nuovo protagonista, l’agente K, nascondendo un mondo di emozioni sotto una facciata impassibile.
Ana De Armas è una sorpresa, ed incanta con la sua intelligenza artificiale innamorata, mentre Jared Leto riesce a dimostrare la sua camaleontica bravura anche con poche scene a disposizione.
E poi c’è Harrison Ford, che si assicura una pensione dignitosa riprendendo con astuzia tutti i ruoli che decenni fa lo hanno reso una star, il suo Deckard non fa eccezione.
L’obiezione che si può fare a questo film è che non vi sia nulla di innovativo, ma pazienza, è talmente pieno di bellezza che fa che fa dimenticare ogni proposito commerciale.
Così come non c’è nulla di male a giocare la carta della nostalgia per realizzare pellicole come “Jurassic World” o i nuovi “Star Wars”, così “Blade Runner 2049” dà prova di non essere soltanto una fotocopia aggiornata di un film di culto.
Passatemi la battuta, questo è un film che si gioca la credibilità davanti al pubblico correndo continuamente sul filo del rasoio, non si accontenta dello spettacolo fine a sé stesso ma alza ulteriormente la posta in gioco, e lo fa per due ore e quaranta!
Filosofico e controverso, “Blade Runner 2049” è un film che viene metabolizzato lentamente e per questo merita una nuova visione appena possibile.
Gli Oscar, almeno quelli tecnici, potrebbero già essere prenotati, a partire dal riconoscimento per il direttore della fotografia Roger Deakins fino alle musiche, anche qui invadenti ed oniriche, che con “Dunkirk” condividono i compositori Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch.
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