Del rispetto filologico vers’il predecessore ho trovato pochissimo, a cominciare da una mess’in scena oltremodo scarna, disadorna, essenziale, minimalista. Non è una semplice antitesi fra disordine e ordine, quanto fra opulenza percettiva e sua penuria malamente bilanciata dalla sfarzosa tavolozza (pantone) di Deakins. Scene madri o frasi che segneranno l’immaginario collettivo non sono riuscito a individuarne, tanto meno quelle che rinviano all’ologrammatica memoria del(l’ex-)presente. Considero sopravvalutato già Scott senior, a cui preferivo il fratello Tony che perlomeno si lasciav’influenzare dalla ricerca d’idee innotive d’un Brian Greene. Ridley invece ripropone, testardo e ottuso, sia un’antropologia dualista con ancora non coscienze o menti m’anime o colombe (“Ghost in the Shell”) che si dipartono dal morente replicante di turno, sia una veteroteologia con “Dei e re” (2014), cacce al demiurgico creatore (la trilogia di “Prometheus”), androidi che figliano evocando “il miracolo” (cit.) dell’Annunciazione mariana. Però Ridley ha o aveva guizzi visionari e talento nella stesura dei dialoghi, mentre Villeneuve è deficitario in ambedue le categorie e crede di compensare a furor di proliss’estetismi.
Fin qui, si tratta solo di mestiere. Più serio e interessante sarebb’il porsi domande sulla definizione d'”autore” e “autorialità”: può esistere tale ruolo nel postmoderno oppure è un’inconsistenza logica? In quest'”epoca del disincanto” (“Entzauberung der Welt”) l’affrontare tematiche, argomenti, contenuti elevati, filosofici, metafisici, insomma storie che si cimentano con quelli ch’un tempo erano chiamati “massimi sistemi”, va giudicato privo di senso e sostituito con una sfrontata mitopoiesi di ripiego, un simulacro sublimamente posticcio? Sulla base della rispost’a tale dilemma, cineasti “dai Lynch ai Refn, dai Malick ai Nolan” sono geni sopraffini o viveversa vacui surrogati.
PS: inviterei ad abbandonare la supposizione ch’autore=Kubrick+Spielberg. “A.I.” del 2001 è una porcata d’irraggiungibile caratura.