Di Bohemian Rhapsody si parla da tantissimo tempo. L’attesissimo biopic su Freddie Mercury, il leader dei Queen, è uno dei progetti più travagliati della storia del cinema americano recente: una patata bollente che ha richiesto molti anni di lavorazione (addirittura venticinque, in totale) e tanti cambiamenti in corsa, tra disguidi produttivi e lunghe attese. C’era dunque notevole attesa intorno al film finito, che arriverà nelle sale italiane il prossimo 29 novembre accompagnato da grandissima curiosità.
Alla regia c’è Bryan Singer, cineasta che ha frequentato a più riprese la saga degli X-Men. Un problema con la produzione che l’ha visto coinvolto (si parla di un’assenza ingiustificata di una settimana) non gli ha impedito tuttavia di firmare il film, anche se nelle ultime fasi delle riprese è stato sostituito in corsa da tale Dexter Fletcher. Un passaggio di consegne impercettibile, anche perché i veri ispiratori dell’operazione, nonché i garanti della sua compattezza e omogeneità, sono sempre stati Brian May e Roger Taylor, membri di punta della band originale e produttori esecutivi.
Bohemian Rhapsody, in tal senso, offre agli spettatori e soprattutto ai fan un compendio della storia del gruppo e del suo leggendario frontman: un grande contenitore equamente diviso tra intrattenimento e sentimento, come tutti i film biografici da Oscar di questo tipo. Perfettamente in grado di restituire il carisma senza tempo della rockstar britannica, la sua fisicità sinuosa e irripetibile, le ossessioni martellanti che sapeva incarnare sul suo stesso corpo e riversare sugli altri – nei concerti, ma anche dietro le quinte – a un ritmo vertiginoso.
Si seguono passo passo, con evidenti ellissi e qualche inesattezza funzionale alla sintesi a effetto di certe situazioni, i primi quindici anni della band, dalla nascita nel 1970 fino al rovente concerto del Live Aid, tenuto al Wembley Stadium nel 1985, apice inarrivabile delle loro esibizioni e vero e proprio biglietto da visita della potenza inarrestabile di Mercury come performer. Una pietra miliare della storia del rock dal vivo e l’emblema perfetto della potenza del film, che arriva a quel momento conclusivo facendone un veicolo musicale da pelle d’oca, spinto alle soglie del rito collettivo.
Un distillato su larga scala delle doti impressionanti di una delle massime divinità musicali degli Ottanta, nato a Zanzibar da una famiglia persiana di etnia Pharsi (il suo vero nome era Farrokh Bulsara) e incarnato sul grande schermo da Rami Malek, attore americano di origini egiziane divenuto famoso per Mr. Robot, straniero in patria proprio come Freddie. La sua prova è una cavalcata mimetica che ricorda la timbrica e l’orchestrazione di tanti brani dei Queen, scissa in maniera millimetrica tra il bisogno di Somebody to Love e la tentazione, costante e irrinunciabile, del Living on my own, coltivando la propria icona da divo sovrumano alla larga da ogni empatia (fu in questa reclusione che Mercury visse e affrontò l’AIDS, malattia che lo condurrà alla morte nel 1991).
Da Bohemian Rhapsody è dunque lecito aspettarsi le galoppate intramontabili che hanno reso immortale e ancora oggi popolarissima la musica dei Queen, perché tutti gli ingredienti concorrono a restituire il rapimento mistico e sensuale delle loro note il lirismo quasi olimpionico di una voce ultraterrena, con un’estensione vocale di quattro ottave. Non c’è praticamente traccia, invece – ed è bene saperlo nel momento in cui si decide di vederlo – per i demoni del personaggio, per il gusto per l’eccesso caotico, scriteriato e indomabile del Mercury più nascosto e sommerso.
Se il privato è quanto di più politico possa esistere, anche nel momento in cui si affronta la riduzione per immagini di una vita vissuta sull’onda lunga di una colonna sonora forsennata, Bohemian Rhapsody, complice il lavoro agiografico dei veri Queen al timone dell’operazione, non si interessa minimamente agli elementi perturbanti della sua personalità. Sembra mantenere lo stesso riserbo schivo e abbottonato che Mercury ostentava in vita, incredibilmente e nonostante tutto, glissando su feste e mascheramenti, stravizi e voli pindarici del peccato a porte chiuse. È il motivo per cui Sacha Baron Cohen, protagonista originario del film e star del politicamente scorretto, ha sbattuto la porta dopo un litigo con May e Taylor, ma anche ciò che rende, con ogni probabilità, Bohemian Rhapsody il film sui Queen che Freddie Mercury avrebbe sognato (e forse anche amato alla follia).
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