“Borg-McEnroe” (id., 2017) è il terzo lungometraggio del regista danese Janus Metz Pedersen.
Film di efficacia e godibile. Quando il cinema tratta argomenti sportivi più o meno importanti ed evento clou non sempre il grande schermo riesce a trasmettere emozioni e virtù degli atleti e/o dei mezzi che usano. C’era stato un film recente di Ron Howard “Rush” (sul duello formula uno nel lontano 1977 tra Hunt e Lauda) che era riuscito a darci molto di quello che gli avvenimenti trattava.
Nel caso in questione si parla della finale di Wimbledon del 1980. La storia è risaputa e, quindi, anche il finale. Svelarlo o no cambia poco.
La produzione svedese (finlandese-danese) tende alla ‘mitizzazione’ del loro compatriota raccontando l’adolescenza, i rapporti interni con fidanzata e con allenatore. Non c’era bisogno di andare oltre, Borg da dolo e senza comprimari ha lasciato un’impronta (quasi) indelebile per un tennis fatto di forza, intelligenza e grande acume della posizione sul fondo linea. Il suo modo di ballare su se stesso è rimasto storico. E nessuno come lui. Ma il film non presta attenzione a ciò che fa ma a ciò che dice e sceglie per le racchette in camera.
Costruzione lineare con attesa del dunque: niente di eclatante se non le riprese che arrecano un danno minimo al tennis. Rappresentare la vittoria e/o la sconfitta in un film non è affatto semplice, poi raccontare il tie-break e riuscirlo a renderlo vivo dopo alcuni lustri sa di deja-vu alquanto pastoso ma non emozionante. Nel tennis il silenzio è preponderante: riflessione e sguardo ad ogni racchettata. ‘Un punto alla volta’ amava ripetere l’allenatore Lennart a Bjorn: freddezza, occhi fissi e lamentela zero. Ecco quello che non è stato possibile per il suo opposto americano: teatralità, gestacci e parolacce,. Ma la finale del 1980 irrappresentabile (per chi ha visto e ha sentito l’intera gara nella sua emozione almeno per chi scrive) rimane emblema di uno sport per pochi o forse per pochi bravi. Tutti possono prendere una racchetta è una pallina ma pochissimi riescono a mandarla dall’altra parte come vogliono loro.
E poi dopo ennesimo match-point quando…l’americano sembrava, e quando lo svedese sembrava, quando tutti e due sembravano cotti a loro modo il tennis regala un finale che forse non t’aspetti. Ma poi i due come si legge nel finale si incontreranno l’anno dopo per un’altra finale. E lo sguardo di ghiaccio e quello a fulmicotone si incontreranno per diventare amici. Il saluto all’aeroporto e il testimone alle nozze renderanno l’incontro umano e poco incline allo sfascio. Nonostante la vittoria r la sconfitta tutti e due si renderanno la pariglia riconoscendo l’uno nell’altro la grandezza sportiva ma non solo. Poi la vita prosegue e ci si chiede se i due nei loro,luoghi privati hanno apprezzato questa ricostruzioni ne di un pezzo della loro vita.
Aspetti di vita andati (e tornati):
– La maglietta dei Ramones mentre il monello telefona ai suoi amici genitori: una vena di ‘nostalgia’ per un gruppo è una situazione.
– l’uso del telefono a gettoni…quasi una lacrimevole modo datato…ma che gusto sapere di telefonate urbane e interurbane….col prefisso;
– Il colore rosso dell’abbigliamento marchiato di Bjorn; rimasto nell’immaginario.
– Il turpiloquio di John ….rimasto per la non classe verso uno sport di elite…..che poi è da verificare…..comunque il parlar sboccato pare sia impresso a molti.
– la diretta TV per tutti…..oggi pare un sogno o meglio…si paga anche il sogno…
– arbitri vecchio stile….ma a Wimbledon….nonostante tutto….pare sua rimasto tutto uguale a se stesso….(un rito senza sbavature….così appare).
– Siamo inglesi niente interruzioni…..anche se la pioggia rende nervosi.
– Foto vere dei nostri eroi (sportivi) ai titoli….forse è il caso di rivedersi le 4 ore della finale
– La regola del tie-break …che goduria adrenalinica…ancora oggi resiste.
– E per finire…un salomonico bicchiere di corroborante dopo un film…per ricordare il disco-music da discoteca ‘Call me’ di Blondie…
L’interpretazione di Bjorn da parte di Sverri Gudnason è quasi in vero e reale: da pelle d’oca quanto basta; Shia LaBeouf in John McEnroe rimane (quasi) al suo pari: rissoso e indiavolato, vispo e allegro nel giusto.
Regia aggressivamente sportiva; un vintage che sa di colore da rispolverare per bene. Sottofondi, rumori e ambienti avvolgono ogni inquadratura.
Voto: 7/10.