Adattando l’autoreferenzialità televisiva al medium cinema, Boris sbarca su grande schermo per smascherare senza pietà i guasti strutturali del settore (e, in pratica, del mondo del lavoro tutto). E lo fa senza derogare in alcuna misura alla propria ferocia iconoclasta. Ce n’è per tutti – produttori ipocriti, prime attrici nevrotiche, raccomandati inamovibili, maestranze ipersindacalizzate, lobby progressiste – senza che l’ampiezza dei bersagli dia mai l’idea di scadere nel qualunquismo.
Ora, se uno si lasciasse un po’ andare, potrebbe dire che oggi l’unico cinema – anzi, l’unico film – che vale la pena difendere in Italia è questo. Boris – il serial, il film, l’idea produttiva – sono una specie di miracolo, perché la loro stessa esistenza presuppone la convinzione di qualche produttore illuminato che in Italia esista una nicchia di persone abbastanza sveglie, abbastanza stufe e abbastanza numerose da pagare il biglietto (o cambiare canale) e rendere così il progetto remunerativo. Il che, in un paese in cui i comici di Zelig sono considerati il vertice dell’umorismo nazionale e Checco Zalone (con tutto il rispetto) una specie di Einstein della battuta, in un paese che tratta un attore “normale” come Servillo con smodata reverenza, in un paese che scomoda Risi, Monicelli e Sordi di fronte a film come quelli di Lucio Pellegrini (La vita facile), è un vero e proprio atto di fede.
Boris, inoltre, non crea imbarazzo nel giornalista che si trova a dover esprimere un giudizio, e per questo raccoglie tutta la mia gratitudine: da anni, tanti anni ormai, chi fa questo mestiere è diventato più paziente. Ci siamo gioco forza adeguati a quel che passava il convento arrivando a riabilitare per noia oscene pochade seppellite dai decenni e a giustificare con pistolotti sociologici la volgarità contemporanea. Abbiamo riso quasi sempre per pietà, abbiamo firmato patentini d’autore per disperazione (o convenienza…). Ci siamo arrampicati sugli specchi per inventare, in conferenza stampa, domande e circonlocuzioni che mascherassero la nostra desolazione. Abbiamo chiamato specificità culturale il nostro medioevo cinematografico.
Quindi, ora, ci limitiamo a dire grazie. Grazie a Boris per la fiducia negli spettatori (merce rarissima), e grazie a Boris perché ci permette di riportare termini come satira e paradosso alla loro origine semantica e alla loro dignità letteraria. Perché ci permette di parlare di una commedia italiana al passo con i tempi senza sotterranei sensi di colpa.
Leggi la trama e guarda il trailer di Boris Il Film
Mi piace
Lo sguardo privo di compassione e compromessi sullo stato di un’industria e di un immaginario alla canna del gas. La confezione tecnica impeccabile
Non mi piace
Il personaggio di Stanis La Rochelle dell’attore vanesio e presenzialista è il meno pungente del film (e forse dell’intera serie)
Consigliato a chi
Naturalmente a chi conosce la serie, ma anche a chi vuole scoprire un nuovo modo – più maturo e consapevole – di fare satira in Italia
Voto: 5/5
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