Charlie Watson (Hailee Steinfeld) per i suoi diciott’anni si regala un vecchio maggiolone Volkswagen, naturalmente di colore rigorosamente giallo. Siamo in un piccolo paesino della California, assolato e sonnolento, e una ragazzina come tante altre vuole combattere il tedio dedicandosi a una vecchia auto da restaurare e da tirare a lucido. Il mezzo di locomozione però nasconde più di una sorpresa…
Sono queste le premesse di Bumblebee, prequel della saga di Transformers portata al cinema da Michael Bay. Un film incentrato sull’archetipo dell’automobile e sul legame affettivo con questo strumento quotidiano che si porta dietro un evidente valore nostalgico: la prima automobile, dopotutto, coincide spesso e volentieri con i ricordi della propria giovinezza perduta, col rimpianto degli anni migliori.
Un sentimento che non può non amplificarsi, com’è facile immaginare, se a intrattenere un rapporto di amicizia con un’auto gigantesca e in apparenza scalcagnata e di scarso valore è una giovane donna nel fiore degli anni come la protagonista del film di Travis Knight, interpretata e incarnata in maniera molto azzeccata e intelligente da Hailee Steinfield: una lolita dagli occhi marroni, espressivi e tondeggianti quasi quanto quelli azzurrissimi di Bumblebee, equamente divisa tra candore ed erotismo sommesso.
Potrebbe sembrare dunque un film banalmente nostalgico, Bumblebee, ma in realtà si colloca alla fine degli anni Ottanta usando quest’immaginario e un determinato periodo storico, con tutto il corredo di ambienti e musiche che ne deriva (gli Smiths, i Duran Duran e via discorrendo), senza appiattirlo, facendone un fondale misurato per la propria idea di rievocazione e per una vena giocosa a misura di tenerezza e di commozione. Un elemento inedito, per la saga, che il futurismo di Michael Bay non poteva ovviamente permettersi né di convocare né di scomodare più di tanto.
Ci sono il teen movie anni ’80 alla John Hughes, una coppia improbabile che deve salvare il mondo dai Decepticons, il fantasma ingombrante e mortifero di Optimus Prime, il più iconico tra i robottoni della Hasbro, ma soprattutto un vago sentimento del mondo di matrice spielberghiana che Bumblebee, nonostante gli obblighi di una confezione fracassona, riesce a tratteggiare con la giusta grazia.
Il film di Knight, in virtù di tutti questi elementi, è il b-side della saga di Transformers che aspettavamo, da vedere tentando di equilibrare l’occhio inumidito e il sorriso stampato in faccia. E non è un caso, a pensarci bene, che Bumblebee tenti di comunicare sintonizzando delle canzoni alla radio. Perché l’intenzione del prodotto è quella di ricalibrare il rimpianto per un’epoca ormai alle spalle – la stessa in cui i Transformers esplosero come fenomeno culturale e di costume – cercando nella maniera più fluida e libera possibile di renderla tridimensionale e di farla aderire alle generazioni contemporanee.
Tra passato e presente, tra musicassette e cofani da oliare, con la volontà chiara e tonda di offrire allo spettatore un alleggerimento comico-romantico che all’epopea dei Transformers al cinema ancora mancava: un portale per sogni adolescenziali in piena regola, senza vergogna alcuna per le proprie innocenti, irrinunciabili ingenuità.
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