Zain ha (forse) 12 anni – lui non sa quando è nato e i genitori non hanno nessun documento della sua nascita – è in prigione già da qualche tempo ed è stato condannato a cinque anni di reclusione per aver accoltellato un uomo. Ma ora si trova in tribunale, dove ha deciso di fare causa ai genitori. L’accusa? Averlo messo al mondo… Con una serie di lunghi flashback scopriremo cosa l’ha portato a prendere quella decisione.
Cafarnao significa pasticcio, confusione, un insieme disordinato di oggetti. Ed è anche la città della Galilea dove Cristo iniziò la sua predicazione. L’idea di titolare così il suo film è venuto a Nadine Labaki osservando la lavagna sulla quale aveva scritto tutti i temi che voleva trattare: l’immigrazione clandestina, la povertà, l’infanzia negata, la nozione di confine e di burocrazia. Così tante cose da essere assieme un bel pasticcio. Eppure, affidandosi ad attori non professionisti, che riesce a guidare con grazia e un pizzico di ironia, aiutata da un budget importante che le ha permesso di seguire i suoi interpreti per più di sei mesi, attenta più a porre domande che a fornire risposte, la regista è riuscita a realizzare un melodramma potente, che partendo dalle baraccopoli del Libano diventa metafora delle povere esistenze di mezzo mondo. Le si può forse rimproverare di perdere il controllo della retorica nell’ultima parte, ma per il resto il film utilizza il punto di vista del bambino protagonista per raccontare da vicinissimo e senza artifici una realtà ingiusta e disturbante, che non può far altro che far riflettere.
Qualcuno ha comunque parlato di cinema ricattatorio e moralista: verrebbe da chiedersi quando e come, allora, il cinema drammatico che della storia mette in primo piano il dolore degli indifesi non sia ricattatorio (non è forse ricattatoria la bambina col cappottino rosso di Schindler’s List?). È una questione di messa in scena, di scrittura o di onestà degli intenti? Ovvero: il problema è davvero l’uso degli strumenti cinematografici, o è il tema ad essere di per sé disturbante, limpidamente scomodo? Forse la risposta è una pura questione di empatia, una misura dello spettatore (critico o meno), del suo cinismo, della sua voglia di raccontarsi sempre un po’ più furbo e scafato degli altri.