Ci si era chiesto, almeno oltreoceano, dove era uscito -strategicamente- a gennaio, perché fosse stato escluso dalle Nomination agli Oscar e perché, soprattutto, Jennifer Aniston, la sua protagonista, fosse stata platealmente ignorata dall’Academy, che non aveva preso in considerazione la sua candidatura a fronte di un’interpretazione che, a detta della critica americana, le avrebbe dato ampio margine, segnando finalmente quel riscatto che meritava. L’esclusione di Cake aveva raggiunto i toni della polemica: la Aniston aveva riposto non poche speranze in quel ruolo, tanto che era arrivata a dire di essere la «numero uno delle snobbate». Non c’era niente di male in quel commento e nemmeno nell’operazione di riabilitazione cui l’attrice aveva tentato di affidare la propria immagine. Quanti attori, a Hollywood, dopo aver raggiunto la notorietà vogliono sganciarsi dal genere o dall’etichetta che li identifica optando per un reboot che ne risani il pedigree? Lo hanno fatto Matthew McConaughey (che appunto ha vinto l’Oscar dopo la radicale trasformazione fisica di Dallas Buyers Club, rinunciando al corpo statuario con cui si era fatto conoscere nelle commedie romantiche), lo ha fatto anche Charlize Theron, che con Monster ha stravolto la percezione comune di sé, guadagnandosi anche lei la statuetta come migliore attrice e lo fanno, tutt’ora, le star che emergono dal prolifico territorio dello Young Adult, vedi il caso esemplare della coppia di Twilight Robert Pattinson-Kristen Stewart che, chiusi i battenti -come coppia e con i vampiri-, si sono subito orientati verso il cinema d’autore (David Cronenberg) o delle pellicole indie (Sils Maria, Still Alice).
Allora, cos’è che non è andato? Ora che finalmente anche noi possiamo verificare con i nostri occhi e mettere alla prova la tenuta di Cake e della sua interprete, la scelta dell’Academy non sembra poi così contestabile. E quel ruolo vituperato, che invece sulla carta, almeno finché potevamo parlare solo alla luce del trailer e delle immagini disponibili, sembrava tanto simile, quasi antagonistico, rispetto a quello della Julianne Moore di Still Alice, non era nel profondo realmente paragonabile. Ora, più che affidandosi a confronti, per una valutazione del film non è tanto rispetto alle contingenze degli Oscar che si dovrebbe ragionare, quanto rispetto al genere che, da qualche anno a questa parte, specialmente nel cinema indipendente (o cosiddetto) si è fatto strada proponendoci una serie di pellicole incentrate sulle vicende di una sfortunata protagonista, possibilmente malata o sofferente, attorno alla quale ruotano una galleria di personaggi secondari, che le sono supporto od ostacolo per descrivere la parabola della sua crescita morale in vista del riscatto finale. Un genere à-la-page.
Cake non è da meno, affidando alla Aniston il ruolo di descrivere le sofferenze di Claire Bennett, ex avvocato di fama (e di denari) rimasta ferita nel corpo e nell’anima da un incidente nel quale, si scoprirà, ha subito una perdita con la quale non riesce a venire a patti. Ridotta a uno stato di dipendenza dagli antidolorifici, Claire si anestetizza ingerendo pillole come fossero caramelle e trascorre le sue giornate, un susseguirsi di solitudine e rari contatti umani gestiti con voluta mancanza di tatto, tra il letto e il sedile completamente reclinato della sua automobile, facendosi scorrazzare e accudire dall’unica persona che non è riuscita ad allontanare, la sua domestica Silvana (una Adriana Barraza che ricorda in non poche scene il suo personaggio gemello di qualche anno fa in Babel). Mentre tenta di comprendere il suicidio di una ragazza che, come lei, frequentava un gruppo di ascolto, (una Anna Kendrick a cui viene affidato il ruolo del poltergeist rumoroso e irriverente) e che le appare spesso in modo dispettoso, quasi sadico, tra sogno e allucinazione, Claire si circonda di presenze fantasmatiche, uomini che vuole le stiano accanto nel sonno -ma da cui non cerca conforto sessuale-, tra cui anche l’ex marito, alla ricerca di una quiete che sembra introvabile.
Indeciso tra la sovrabbondanza espressiva della sua protagonista, che si contorce non poche volte a calcare la mano sul dolore del personaggio interpretato, e l’ironia che, sin dalla colonna sonora, vorrebbe mantenere un tono mai completamente drammatico, di Cake emergono l’artificio e la cosmesi di un’operazione che, nemmeno troppo in controluce, riflette in modo piuttosto evidente la necessità della Aniston (che è anche produttrice del film) di cambiare volto e di riscattarsi. Personaggi costruiti in funzione della sua performance (incluso il cameo insignificante di William H. Macy), una sceneggiatura stagnante, che progredisce a strappi, e un finale prevedibile -d’altro canto, si potrà controbattere, è il genere stesso a esigerlo-, fanno di Cake un film che nulla toglie e nulla aggiunge alla carriera dell’attrice e che, forse oggetto di quell’ansia da prestazione con cui è stato ideato, riesce solo a far trasparire la sua evidente ingessatura.
Mi piace: la prova della Aniston e il suo desiderio di rilanciare la sua carriera sotto una luce nuova
Non mi piace: il film è fin troppo concentrato su di lei e trascura eccessivamente tutto il resto
Consigliato a chi: è alla ricerca di una storia di riscatto e di crescita
Voto: 2/5
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