Capodanno a New York (2011) – indigestione di speranza. Mosaico zuccheroso esageratamente buonista, incapace perfino di far durare più di cinque minuti l’inevitabile scontro madre-figlia adolescente. Nella notte newyorkese di San Silvestro, tante piccole storie si affollano nell’abnorme massa riunita a Times Square per salutare il nuovo anno. Un universo fin troppo candido per essere vero, dove la Grande Mela è un irrealistico e dolciastro pancake da carie assicurate, traboccante all’inverosimile d’indigesto sciroppo d’acero.
Da Garry Marshall non ci si può certo aspettare film drammatici. Il suo curriculum parla chiaro: Pretty Woman (1990), Se scappi ti sposo (1999), Quando meno te lo aspetti (2004) e Appuntamento con l’amore (2010), tanto per citare i più famosi. In “Capodanno a New York” (New Year’s Eve) domina un variegato campionario umano con pochi sprazzi di originalità. C’è Stan Harris (Robert De Niro), il vecchio morente che con l’alito della morte sul collo, si lascia andare alla più scontata delle redenzioni, auto-flagellandosi per i suoi odiosi comportamenti passati. Ci sono donne e uomini di successo, ma infelici sentimentalmente. Claire Morgan (Hillary Swank), Laura (Katherine Heigl) e Sam (Josh Duamel), che in maniera diversa sono alla ricerca dell’amore trascurato. C’è Kim (Sarah Jessica Parker), la madre ansiosa che crede ancora di poter trattare la sveglia figlia quindicenne come se fosse una bambina. C’è Ingrid (Michelle Pfeiffer), frustrata e depressa, che si affida al volenteroso e giovane corriere espresso Paul (Zac Efron) per realizzare i propositi di fine anno, rimediando anche il più scontato dei baci di mezzanotte. C’è l’anti-capodanno per eccellenza, Randy (Ashton Kutcher): barba incolta da indolente filosofo, pantaloni rigati del pigiama e nessuna intenzione di festeggiare. Nel ritrovarsi bloccato in ascensore con la sconosciuta vicina di casa Elise (Lea Michele), finirà per farsi coinvolgere dalla sincera energia della ragazza, attesa sul palco di Times Square come corista della star Jensen, il redivivo (nel cinema) John Bon Jovi. Gli anni passano anche per lui (ha già superato la fatidica soglia dei 50), ma la voce resta sempre una delle migliori dell’interno panorama mondiale. E nella pellicola fa quello che sa fare meglio, il musicista. Romantico, e con quell’aria un po’ stralunata alla “Moonlight & Valentino” (1995), seconda prova cinematografica del cantante originario del New Jersey. I soli spunti originali emergono da due coppie che stanno per avere un figlio, pronte a ingaggiare un duello a suon di visite per chi sarà la prima a partorire nel 2012 e ottenere così il ricco premio da 25mila dollari messo in palio dall’ospedale (lo scontro vedrà opposti Jessica Biel e Til Schweiger, l’indimenticabile sergente Hugo Stiglitz del tarantiniano “Bastardi senza gloria”). L’altra nota positiva del film, nell’oceano dei volti positivi, è l’infermiera Aimee (Halle Berry). Finito il turno a pochi minuti dalla fatidica mezzanotte, sfoggia un vestito violaceo da urlo lasciando immaginare chissà quale rendezvous. In effetti è così. Ma davanti a una webcam, per collegarsi con il marito impegnato nel conflitto in Iraq. C’è paura nella voce di Aimee. Ci sono spruzzi di lacrime nel sapere che l’amore della sua vita è in guerra. Il suo mettere le mani sullo schermo per abbracciarlo è forse il tratto più poeticamente romantico di una pellicola troppo ingolfata di prime donne. La sua speranza d’amore è quella di ciascuno di noi.
“Capodanno a New York” (2011) è un film corale che ha il grande merito di regalare qualche pensiero positivo in vista di un difficile 2012. Un anno cruciale per l’economia di molte (troppe) nazioni, e soprattutto per tutta quella società civile alla mercé di politiche sbagliate e politicanti incapaci. La seconda chance pare quasi un diritto, o meglio (peggio), una garanzia per ciascuno. Ma è davvero così? Marshall ce lo suggerisce, ma noi tutti sappiamo che le seconde possibilità bisogna guadagnarsele sul campo. Non basta mettersi a correre a venti minuti dal novello 1 gennaio, rispolverando l’Harry Burns, dell’indimenticabile finale di “Harry, ti presento Sally” (1989, di Rob Reiner), che c’è in ciascuno di noi. La vita vera è un’altra cosa. Il grande cinema pure.
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