Captain Marvel è atterrata sulla Terra. Finalmente. È dal 25 aprile dell’anno scorso, ovvero dall’uscita di Avengers: Infinity War che il pubblico attende di conoscere come il nuovo personaggio si inserirà nell’MCU e di rispondere a tutti i quesiti scatenati dal lancio del segnale del cercapersone di Nick Fury prima che venga polverizzato dallo schiocco di dita di Thanos.
Il film – ricordiamolo – è ambientato nel 1995, 15 anni prima della fase 1, e pertanto vale come il prequel definitivo di tutte le avventure a firma Marvel che abbiamo visto finora. Ecco perché la sua visione si rivela così importante per gli appassionati dell’MCU, permettendo ad esempio di scoprire come Fury abbia perso l’occhio, del perché abbia deciso di dar vita al progetto Avengers, e gettando ovviamente diversi indizi utili a comprendere a posteriori come si risolverà l’epico scontro con il Titano pazzo.
Captain Marvel segue due binari paralleli che servono ad allargare il nostro sguardo e a comprendere più profondamente la nuova eroina che ci troviamo di fronte e il mondo in cui siamo immersi. Da una parte c’è la dimensione aliena, la scoperta già nelle prime battute dei suoi poteri, il disvelarsi di una guerra senza esclusione di colpi tra due popoli, gli Skrull e i Kree, portatori entrambi di alcune delle sorprese più interessanti di questo standalone. Dall’altra il passato terrestre, per lei totalmente nebuloso e presente perlopiù sotto forma di incubi, che la condurrà in un viaggio alla riscoperta delle sue emozioni umane, il suo superpotere più grande, o meglio, il booster dei suoi poteri.
La Vers (il suo nome Kree) che conosciamo all’inizio è infatti una soldatessa a cui viene insegnato a dominare i suoi impulsi. «Non lasciare che le emozioni abbiano la meglio sul tuo giudizio» è l’invito che il suo superiore e mentore – interpretato da Jude Law – le fa frequentemente, mostrandole come ogni volta che è offuscata dalle reazioni istintive, la sua abilità di guerriera perde d’efficacia. Il viaggio che compirà sul nostro pianeta, dove precipiterà per caso in seguito a una missione fallita, la condurrà nella direzione opposta: alla scoperta della vera Carol Danvers e degli affetti che si è lasciata dietro, una rivelazione che avrà effetti straordinari a livello della sua metamorfosi nella definitiva Captain Marvel.
È un film femminista? Sì, ma nel senso migliore dell’accezione del termine e per niente feminazi (come temuto da alcuni e come paventato da diversi troll circolati nel scorse settimane). Marvel, nel raccontare per la prima volta e con un certo ritardo rispetto alla concorrenza la sua prima eroina, trova il giusto equilibrio tra legittimazione femminile e viaggio alla scoperta di sé. Certo, Carol ha vissuto sulla sua pelle discriminazioni e atti di bullismo a sfondo sessista durante la sua vita e la sua carriera militare, ma non si è mai lasciata piegare né definire da questi.
Se Black Panther è stato lo spartiacque sul tema razziale, Captain Marvel rappresenta per la Casa delle idee quasi un manifesto sulla questione femminile, giacché non solo per la prima volta a dominare sulla scena quasi completamente è una donna, ma perché le cosiddette “quote rosa” comprendono altri comparti principali come la regia (in mano ad Anna Boden, al fianco del marito Ryan Fleck), il montaggio e la colonna sonora.
Senza tralasciare l’intenso rapporto di amicizia che la protagonista ha con Maria Rambeau (Lashana Lynch). Una relazione intima, tratteggiata con cura, che per affinità di mestiere (entrambe sono state due piloti dell’Air Force), potrebbe ricordare quella tra Maverick e Goose di topguniana memoria.
Oltre ai messaggi politici cari a Disney/Marvel il 21esimo capitolo dell’MCU ha anche il merito di allargare definitivamente i confini dell’universo in cui si muovono i suoi eroi. Inizia come una space story a tutti gli effetti e via via ci svela i collegamenti tra la Terra (per gli essere galattici un banalissimo C-53, definito un “vero letamaio” dall’aliena di turno) e il resto della galassia, spiegandoceli anche meglio che i Guardiani.
Brie Larson ha la faccia, il physique du rôle e la convinzione giusti per il personaggio, anche se gli attori di contorno – un po’ per maggiore esperienza, un po’ perché non incastrati nell’eroe tutto d’un pezzo – le rubano a volte la scena, a partire dalla stessa Lynch citata prima, passando per un Law sempre a suo agio nei ruoli ambigui, un simpaticissimo L. Jackson e uno strepitoso “mutaforma” Ben Mendelsohn, senza trascurare la guest star Goose, il gatto dal pelo rosso che tiene in serbo alcuni dei colpi di scena più riusciti.
Quanto all’ambientazione anni ’90, se è da applausi l’atteggiamento ironico con cui ci si prende gioco della tecnologia dell’epoca: i tasti grossi e duri, Internet a 56kb e i pc lentissimi a caricare, meno convincente è la scelta dei pezzi musicali (piuttosto scontata), che ci fa rimpiangere il lavoro ricercato eseguito da James Gunn per I guardiani della galassia e si fa perdonare solo quando introduce per la prima volta i Nirvana nell’MCU.
Assi nella manica indiscutibili, sono il ritmo movimentato dell’azione, con cambi continui di scenario e situazioni, e gli effetti speciali. Se le scene “cosmiche” sono davvero ipnotizzanti al limite dello psichedelico, una menzione speciale va dedicata al ringiovanimento digitale di Sam Jackson e Clark Gregg (il redivivo Phil Coulson dello S.H.I.E.L.D.), effetto già usato in precedenza ma mai per un tempo così prolungato e che apre nuovi orizzonti per la cinematografia futura.
Questo cinecomic, posizionato non a caso non molti giorni prima dell’uscita del capitolo definitivo della Fase 3, mette a posto diversi pezzi del puzzle più grande di cui fa parte ed è stato concepito come un grandioso “teaser”, che fomenterà moltissimo l’hype già altissimo per Endgame.
Un commento su Twitter della stampa americana, uscito subito dopo l’anteprima, recitava: “Thanos è fottuto“. Non potremmo essere più d’accordo.
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