Una famiglia tenta di fuggire dalla Chicago occupata dagli alieni ma fallisce nel suo intento e sopravvivono solo i due giovani fratelli. Nove anni dopo, nel 2025, uno dei due è scomparso e dato per morto, ma in realtà è andato a ingrossare le fila della resistenza, mentre l’alto lavora ai chip dei cellulari per rilevare dati relativi alle creature extraterrestri. A indagare sulla resistenza e sui suoi moti terroristici c’è anche il detective William Mulligan, interpretato da John Goodman, incaricato di proteggere il quartiere di Pilsen dagli invasori.
Captive State del regista inglese Rupert Wyatt, già dietro la macchina da presa per L’alba del pianeta delle scimmie, è un interessante e stimolante esempio di cinema di fantascienza che tenta d’imporre un racconto dalle atmosfere cupe e nichiliste. Lontano da ogni forma di compiacenza verso gli scenari commerciali del cinema contemporaneo e con un tocco adulto e psicologico che fa degli Stati Uniti d’America uno sterminato territorio di caccia, minaccioso e indefinito, del quale non si intravedono i contorni e al cui interno la disperazione prolifera a perdita d’occhio.
Scritto dallo stesso Wyatt insieme alla moglie Erica Beeney, Captive State più che il racconto di un’invasione aliena è “una storia d’occupazione aliena”, come la definisce il suo autore, che non teme di accumulare personaggi e sottotrame in maniera incontrollata ma fa un po’ fatica nel districarsi in un intreccio spesso inutilmente arzigogolato, dove i livelli di comprensione di accavallano e si confondono e le dinamiche sci-fi sembrano vessate da un’ambizione forse eccessiva, che sconfina nella pretenziosità.
Wyatt guarda a modelli indubbiamente alti e ricercati e, a partire da un soggetto che non concede molto spazio alle psicologie dei personaggi, preferisce inanellare suggestioni e connotare il più possibile un’ambientazione evidentemente post-apocalittica in cui però l’apocalisse è ancora in corso e la stasi si protrae senza molti spiragli di speranza, sebbene il sottobosco della società sia più attivo che mai. Questa contraddizione tra ciò che di minaccioso sovrasta i personaggi da tempo immemore e i moti che agiscono ai margini della società produce, in compenso, delle contraddizioni interessanti.
Tutto il film, non a caso, è diviso, come l’America che rappresenta, tra caos e ordine, tra democrazia e anarchia, tra subalternità a un fato che è impossibile rovesciare e ultimi, disperati tentativi di sfuggire a un destino che pare già segnato. In quest’oscillazione Captive State fa registrare una tensione e una dinamismo dal taglio quasi militare e non è un caso che il film di Wyatt, costato “solo” 25 milioni di dollari, investa poco sulla presenza degli alieni in termini di minutaggio ed effetti digitali, trattandoli alla stregua di un pretesto per parlare di (molto) altro.
A interessargli maggiormente sono le fratture tra i diversi livelli della società, a riprova della natura sociale (e va da sé politica) dell’operazione. Per non parlare della componente disturbante di una partitura sonora elettronica che amplifica le tensioni latenti tanto delle immagini quanto dei personaggi in campo, a cominciare dal poliziotto interpretato da John Goodman, una maschera di tetra impassibilità. Lo sviluppo di tutti questi elementi ha un tono quasi ipnotico, che al netto di una sceneggiatura involuta non manca di intavolare degli spunti ad alto tasso di seduzione, soprattutto nei momenti più algidi e controllati che spingono il film alle soglie di una totale assenza di empatia, tanto anaffettiva quanto mortifera.
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