Carnage: la recensione di Luca Ferrari
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Carnage: la recensione di Luca Ferrari

Carnage: la recensione di Luca Ferrari

Una zuffa tra due ragazzi spalanca le porte alle voragini sentimentali dei rispettivi genitori, che s’incontrano per discutere la questione. Dirige Roman Polanski. Il risultato è a dir poco geniale. Con risate (del pubblico) che accompagnano la deriva delle relazioni di coppia. Dopo il thriller “The Ghost Writer” (2010, con Ewan McGregor e Pierce Brosnan), ecco “Carnage” (2011), presentato alla 68° Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia, e basato sull’opera teatrale “l dio del massacro” di Yasmina Reza. Tutta la vicenda si svolge in una casa. I due effettivi protagonisti, i figli, si vedono all’inizio e alla fine del film. Prima c’è lo scontro, poi si parlano. Com’è normale tra due adolescenti. Senza fantomatiche o auspicati interventi pater-materni. In mezzo, un angosciante viaggio nelle vite di coppia, dove le nuove generazioni si rivelano un ostacolo insormontabile da educare, consigliare e amare. Alan Cowan (Christoph Waltz) è il più coerente dei quattro. Padre del ragazzo che ha colpito con un bastone l’altro. Del tutto disinteressato all’incidente dall’inizio alla fine del menage con la famiglia Longstreet. Definisce senza mezzi termini il giovane Cowan un “pazzoide” che ignorerà qualsiasi predica gli si possa fare. A parte pensare ai fatti suoi, sottolinea l’esagerazione di Penelope Longstreet nel giudicare un carnefice il proprio figlio solo per una normale scaramuccia tra ragazzi venuti alle mani. Per nulla avvezzo a provare compassione per le cosiddette fasce deboli, è un avvocato scaltro che difende clienti pescecane, Pentagono incluso. Costantemente attaccato al suo iphone, non c’è conversazione che non venga interrotta da una chiamata a cui lo risponde con incredibile nonchalance. Nancy Cowan (Kate Winslet) è in apparenza la più fragile dei personaggi. Si sforza di comprendere le ragioni dei genitori il cui figlio è stato picchiato dal suo. È repressa emotivamente e poco dedita a dire le cose come sono, presumibilmente per compensazione visto che il marito non si fa alcun problema. Causa stress e una fatale torta di mele e pere, vomita sui preziosi libri d’arte di Penelope. Un paio di whisky le daranno il coraggio di buttare fuori tutto quello che ha, gettando esausta il prezioso telefono multiservizi di Alan in un vaso pieno d’acqua (e mandandolo così per la prima volta in crisi), sparando senza pietà sull’altra coppia, e dicendosi alla fine felice di quanto accaduto precisando che il piccolo Longstreet altro non è che un “frocetto cagasotto e vigliacco”. Michael Longstreet (John C. Reilly) è un maratoneta dell’esplosione. Parte lento. Posato. Nel nome della mediazione e della conciliazione. Ma più a lungo prosegue il dialogo con i Cowan, più inizia a cedere la barricata mentale richiesta dalla rigida moglie. Michael vende oggetti per la casa. Ha una madre opprimente. Sentitosi svilito di fronte all’importante lavoro del corrispettivo maschile, inizia a scaldarsi e gonfiare il petto. Poi il suo disagio rompe gli argini e viene fuori la sua vera natura, tuonando contro la moglie. Michael è un uomo rude. Scarica addosso alla consorte le incomprensioni e miserie di una vita. Ha una bassissima opinione del matrimonio e della famiglia, e lo sottolinea citando episodi di vita. Abbandona in piena notte il criceto dei figli, di cui ha terrore, in mezzo alla strada. Sorseggia alcol fumando sigari, cosa che la dolce metà non tollera. Parole sue, dice di essersi atteggiato a “buon borghese” quando in realtà è “un figlio di puttana isterico”. Penelope Longstreet (Jodie Foster) è il personaggio più emblematico del quartetto. La classica madre apprensiva. Suo figlio è stato picchiato, e per lei è una vittima. Ignora però che sia a capo di una banda. Usa paroloni come “aggressione” e “sfigurato”. La sua esasperata emotività sull’argomento nasce da una sensibilità rivolta ai più deboli; ama l’Africa e sta scrivendo un libro sul Darfur. Ci sono però lacune nelle sue tesi. Pur dicendo di parteggiare per il più debole, se ne esce con una filosofia molto Bushiana alla “sono felice e fiera di vivere nell’Occidente evoluto”. Cerca di ribattere alle stoccate del marito, ma le lacrime sono la sua unica difesa. Trova saltuariamente un’alleata in Nancy, per una sorta di solidarietà femminile, ma è un fuoco di paglia. È rigida nei giudizi, ma incapace di far valere le proprie idee come nella cinica lezione sul costante “massacro quotidiano” che Alan Cowan gli rifila senza pietà. È un’idealista che non trova alleati. È il personaggio più triste. Sconfitta da tutti. Crede nell’evoluzione dei rapporti umani, ma lei stessa è sinonimo del fallimento di questi. Perché per qualcuno è tutto così complicato nelle relazioni di coppia? Perché per qualcuno è tutto così semplice nelle relazioni di coppia? Nella maggior parte dei casi basterebbe parlare. Basterebbe iniziare a parlare anche quando l’idea dell’amore eterno non è ancora un kit di sopravvivenza, o è molto lontano dall’essere un facile bersaglio da scorticare. Bisognerebbe parlarsi quando è più facile cedere al dolore e al silenzio e si ha smesso di meravigliarsi della presenza di un cuore che batte vicino al nostro.

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