“Cattive acque” (Dark Waters, 2019) è l’ottavo lungometraggio del regista-produttore di Los Angeles Todd Haynes.
Film civile della grande tradizione americana (anni settanta). Non ci sono dubbi, ci troviamo di fronte ad un film inchiesta scoperchiante e di poco compiacimento verso i poteri forti.
Fino alla fine e senza un lieto fine. Tutt’altro. Un’amarezza ed una paura strisciano lungo tutto il film fino ad oggi. Dappertutto e senza sosta. Scorrono gli anni fino al contemporaneo. All’oggi.
E le didascalie finali non promettono nulla di buono. Anzi un incubo nel pieno della globalizzazione e del profitto (e sfruttamento) ad ogni costo.
“La DuPont ha il potere, può mettere in fila i migliori avvocati possibili”.
“I dollari di risarcimento sono per loro briciole, possono (ri)guadagnarli in poche ore”.
“Hanno vinto, vincono e vinceranno sempre”.
Robert Bilott, l’avvocato e padre di famiglia ha messo tutto se stesso per cercare di bloccare il male. Ma è impossibile. È proprio impossibile fermare l’interesse totale di un potere economico formidabile.
il film è basato sull’articolo del ‘New York Times’ (2016) ‘The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare’ scritto da Nathaniel Rich, sullo scandalo dell’inquinamento idrico di Parkersburg nella Virginia Occidentale. L’avvocato Robert Bilott (difensore di industrie chimiche) viene contattato da un allevatore (Wilbur Tennant) del posto per delle forme tumorali e per grossi problemi alle sue mucche. Da timido approccio l’avvocato arriva a scoprire molto; sa degli scarichi irregolari verso certi corsi d’acqua e della zona completamente infetta di acido pericoloso. Si arriva anche ai prodotti usati per le pentole antiaderenti e il Teflon. Un marciume chiuso nelle carte e che mai nessuno ha avuto il coraggio di denunciare.
Anni e anni di battaglie legali tra il piccolo allevatore e il colosso chimico. Oltre Davide e Golia.
‘In fondo sono brave persone’ dice la donna, umile e madre. Se una delle ultime e colpita parla bene, per sentito e non sentito dire, difficile cominciare a scalfire il male e l’inquinamento che ha procurato (e che continuerà a farlo per sempre) per le persone che vi hanno lavorato, per tutte le persone che hanno acquistato e per tutti che hanno creduto ad una falsa promessa. La pubblicità dell’inganno continuo.
Si ha voglia di non usare più nessuna padella e di strappare pubblicità a misura di donne a trentadue denti (vedasi pubblicità dell’epoca) per la pulizia delle loro stoviglie.
Dagli anni cinquanta ad oggi niente sembra cambiato.
Finale amarissimo. Una retromarcia dell’inquadrature. Due persone che si perdono nel buio dello schermo. La fine. Sconfitta per tutti. La DuPont ha il marchio con inquadratura frontale: non si muove. La famiglia americana e la sua provincia tremano senza poter far nulla.
Film oltremodo consigliato per (cercare di) capire da dove siamo partiti e dove siamo arrivati. E la corsa non è finita. Una corsa senza medaglie dove l’uomo semplice viene sfruttato oltre i suoi miseri mezzi di scontro con il potere economico.
‘Ad oggi il 99% degli esseri umani abbia nel sangue una certa percentuale di PFAS’. Didascalia finale che mette i brividi.
Mark Ruffalo (Robert Bilott), riflessivo e testardo, silenzioso e basito, prova di compassione e di grande coraggio; Tim Robbins (Tom Terp), asettico e vile, maestranza e timoroso, prova di altezza al potere; Bill Pullman (Harry Dietzler), interessato e in mezzo, socchiuso e lunatico, prova di desolazione.
E’ da menzionare la vera forza di Bill Camp (nel personaggio dell’allevatore Wilbur) e quello che rappresenta nel film e nella verità processuale. Sulla sedia a rotelle insieme alla moglie, con la malattia già divorante dà coraggio, nei suoi gesti, all’avvocato Robert. Una sconfitta amara per chi ha bisogno di vivere del suo onestamente. Nella pellicola vengono citati nomi e cognomi veri, risarcimenti e atti, come vengono ringraziati i volti umani e deformati di chi ha subito ‘i danni genetici’ (dalla Chimica DuPont).
Anne Hathaway (Sarah Bilott), moglie tenace, paurosa, lontana e intensa. La sua vita accanto ad un ‘vittorioso’ perdente. L’inquadratura finale lascia sospesi e arrabbiati.
Fotografia di Edward Lachman cruda e acerba, sfinita e fredda. Linearmente in padella. Musiche di Marcelo Zarvos metalliche e scontrose. Claustrofobicamente silenti.
Regia di Todd Haynes, vuota, vicina e dall’alto. La DuPont di fronte a noi.
Voto: 7½ (***½) -cinema (anti)aderente-