C'era una volta in Anatolia: la recensione di Silvia Urban
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C’era una volta in Anatolia: la recensione di Silvia Urban

C’era una volta in Anatolia: la recensione di Silvia Urban

Breve premessa. Cannes ama Nuri Bilge Ceylan. Lo dimostra non solo la Carrozza d’oro ricevuta all’ultima edizione del Festival, ma anche il fatto che dei sette film del regista turco (se si include anche il corto Koza), cinque sono passati dalla Croisette, portandosi a casa qualche premio (mai il massimo riconoscimento, però). L’ultimo è C’era una volta in Anatolia, Gran Premio della Giuria all’edizione 2011 della kermesse francese.
Un film non facile, capace di scardinare le regole dell’azione e del tempo con il suo ritmo lento e l’assenza di azione, tutto giocato sulla splendida fotografia di Gokhan Tiryaki e su una sceneggiatura che alterna dialoghi illuminanti a silenzi rivelatori.

Uno spettacolare tramonto nella steppa turca definisce i limiti spazio-temporali del racconto: un giallo dove è la vittima a mancare all’appello. I colpevoli, reo confessi, sono infatti noti e presenti fin dall’inizio dell’indagine e saranno loro a guidare poliziotti, procuratore e medico legale nel luogo in cui è sotterrato il cadavere, dopo una lunga notte di ricerche. Nessuna scena madre, nessun colpo di scena, nessuna azione. Tutto avviene in una notte. Tra siparietti ironici (i poliziotti che non hanno portato il lenzuolo per coprire il cadavere, il corpo che a fatica riesce entrare nel bagagliaio, l’auto che non riparte e bisogna scendere a spingere), momenti di grande poesia (le riprese del paesaggio turco) e molti silenzi, il film penetra nei personaggi, in particolare il procuratore che «assomiglia a Clark Gable» e il medico legale, svelandoci via via il loro passato, la loro umanità e soprattutto la loro solitudine (entrambi hanno perso la moglie in circostanze drammatiche).

Un film che dopo due ore e mezza lascia un finale aperto, e di cui non rimane niente, eppure tutto. Come la notevole interpretazione e gli sguardi di Muhammet Uzuner e Taner Birsel; l’oscurità della notte rotta solo dalla luce dei lampi che lasciano intravedere la sagoma di un volto scolpito nelle rocce; una regia che si lascia conquistare dalla bellezza della natura e dai dettagli (la macchina da presa che indugia su una mela che rotola fino a cadere nel fiume o sulla fiamma di una lampada); una sceneggiatura capace di infondere mistero e curiosità anche nei silenzi; il ritratto di due uomini qualunque eppure universalmente immedesimabili.
«La vita in una piccola città è simile a un viaggio nel bel mezzo della steppa: la sensazione che qualcosa di nuovo e diverso stia per nascere dietro ogni collina, ma sempre, infallibilmente, percorrendo strade monotone che si snodano, spariscono e riappaiono» ha detto il regista. E questa è anche la Settima Arte secondo Ceylan: un cinema che affascina portandoci a percorrere strade che sembrano non condurci da nessuna parte eppure si rivelano una scoperta continua. Bisogna solo avere il coraggio e la pazienza di lasciarsi guidare.

Leggi la trama e guarda il trailer del film

Mi piace
L’eccellente prova di Muhammet Uzuner e Taner Birsel e una regia capace di svelare in modo sorprendente le psicologie dei personaggi. La splendida fotografia di Gokhan Tiryaki

Non mi piace
Il ritmo lento e l’apparente incompiutezza del film potrebbero risultare insostenibili

Consigliato a chi
A chi ama il cinema d’autore e ha la pazienza di lasciarsi guidare nella steppa turca per oltre due ore e mezza

Voto
4/5

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