Child 44 - Il bambino numero 44: la recensione di loland10
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Child 44 – Il bambino numero 44: la recensione di loland10

Child 44 – Il bambino numero 44: la recensione di loland10

“Child 44. Il Bambino n. 44” (Child 44, 2014) è il quinto lungometraggio del regista svedese Daniel Espinosa.
‘Non esistono crimini in paradiso’: è da questo che il film snoda segreti di stato, scorciatoie comode e misteri di morte mai avvenuti. Nella Russia ‘imperiale’ del comando supremo Stalin ogni voce e ogni gusto di indagarne il remoto dubbio è soppresso. Senza remora alcuna ogni chiuso rimane tale e ogni d’arma da fuoco è solo un rumore in un (il) silenzio del potere.

Basato sul romanzo (‘Child 44’) del 2008 di Tom Rob Smith, il film porge fiancheggiamenti ispirati in tono dimesso e archeo-politica dei palazzi senza inferiore più di tanto. Il destino dei sovraccarichi pensieri del potere ricuce ogni storia e fa permeare il chiaroscuro in un sangue putrefatto con oblii poco disincantati. Quello che si vuole dire che il resoconto delle immagini e delle situazioni è poco coinvolgente e quanto meno aspro per chi vorrebbe capirci qualcosa. La storia sulle vicende del ‘Killer di Rostov’ è un perno di andirivieni temporale che poco incide e poco rammenda tutto l’escursus storico dagli anni trenta fino agli anni cinquanta. E siamo nel 1952 quando Leo, membro della polizia segreta sovietica (MGB) e la moglie Raisa vengono spostati da Mosca per la protezione del marito sulla moglie traditrice. E il potere su tutto diventa un destino di confine tra i Monti Urali. E l’indagine sui bambini uccisi (lungo i binari di treni in viaggio tra foreste, nevi e sterminate terre) arriva allo scontro finale. Leo non si ferma con l’aiuto del Generale Mikhail Nesterov fino ad una lotta interna della polizia segreta con il nemico Vasili.

Detta così una storia intrigante, sociale, misteriosa, offuscante, vibrante e indagante: invece tutto scorre nell’ordinario più comune e l’intrigo investigativo si rivela debole con fuori immagini e fuori racconto tagliato alla bene è meglio. E l’assonanza regia-cast non è il massimo che si pretende per un film del genere. Peccato, perché Espinosa avevo fatto (decisamente) meglio nell’ultimo ‘Safe House – Nessuno è al sicuro’ (2012) e aveva mostrato un piglio di intraprendenza (registica) niente male. In questo ‘Wild 44’ fa passi indietro e, soprattutto, non riesce a tenere interessante la storia con giuste sovrapposizioni di ‘realtà sconosciuta’ e si ha la (netta) sensazione che il non visto sia molto più accattivante. Un film che nasconde molte cose, troppe e alla fine riesce a mala pena tenere a galla il ‘fattore’ indice di un titolo troppo disperso e il ‘bambino quarantaquattresimo’ che non sfugge dalla morte rimane lì ad osservarci (dal titolo) senza avere volto di conoscenza storica, pathos umano e sguardo oltre le immagini (usuali, vitree, lineari ma quasi mai senza scatti di profondità dentro il chiaroscuro del potere e il comando dei servizi: il Killer di ogni storia è sbiadito e l’infanzia senza vita appare lontana, e di molto, dagli occhi di uno spettatore appesantito, assonnato e, quantomeno, non coinvolto).

E l’epilogo finale tra corse, boschi, freddo, melma e inseguimenti tra pugni feroci di sangue in arrivo (come un coltello che infila un corpo che non conosci per un respiro l’ultimo) appare un rigurgito di messa in scena già attesa (e vista) e un fruire di un conto (senza resto) che costruisci senza novità e un abbraccio di consolata famiglia: e l’indagine iniziale che pareva intrigante si perde infangata senza colpo (ferire) mentre tutti i bambini non hanno un nome come per ogni destino già scritto.

Gli attori compiono il loro dovere (e alcuni ci credono anche) ma si ha la (giusta) sensazione di personaggi costruiti male e dati in ‘pasto’ ad un cinema già vecchio (e schematico) prima di essere montato. Poca verve, poca linfa, poca visibilità, poca teatralità e alla fine poca ‘celluloide’ vera. E’ il cinema stantio che si vede senza entusiasmarsi di (quasi) nulla.

Tom Hardy (Leo), Noomi Rapace (Raisa), Gary Oldman (Generale Nesterov), Joel Kinnman (Vasil), Vincent Cassel (maggiore Kuzmin) sono pur bravi ma non oltrepassano lo schermo per una regia (un po’) piatta e una vicenda che è narrata senza scatti e quasi parsimonia. Il non visto e il non detto (tipo fuori onda) sembrano più interessanti (almeno si suppone) di quello che lo schermo ci propina in oltre centotrenta lunghissimi minuti. Il migliore Gary Oldman che ha dalla sua la ‘giusta cattiveria’ di un attore di razza. La produzione (tra gli altri) della ‘Scott Free Productions’ non fa che aumentare il rimpianto (minimo) di un’opera costruita non bene e di un film ancora da girare. Come detto la regia appare vuota e poco appetibile per una storia che ha bisogno dell’opposto (o quasi).

Voto: 5.

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