Child 44 - Il bambino numero 44: la recensione di Marianna Trimarchi
telegram

Child 44 – Il bambino numero 44: la recensione di Marianna Trimarchi

Child 44 – Il bambino numero 44: la recensione di Marianna Trimarchi

Non ci sono crimini in Paradiso. Nello Stato stalinista, dove il diritto della persona viene superato e trasceso da quello della collettività, un atto capitalista come l’omicidio, o la prostituzione, non può essere ammesso. Il Regime garantisce uguaglianza e parità a tutti i suoi cittadini, per questa ragione il desiderio individuale non ha ragione di esistere: è lo Stato, nelle sue incarnazioni burocratiche e nell’esercizio dei suoi poteri, a garantire, attraverso la piena obbedienza al Governo centrale, l’abolizione della proprietà privata, la rottura degli interessi del capitale, il controllo della produzione, la ripartizione delle risorse, la realizzazione del Comunismo.

La cornice storica in cui si situa Child 44- Il bambino numero 44, il film dello svedese Daniel Espinosa a cui Ridley Scott, qui produttore, ha ceduto la direzione, è il sistema in cui trovano compimento i molteplici livelli della pellicola, un dramma in costume di buona fattura che dialoga tanto con i linguaggi del thriller, quanto con quelli del romanzo sentimentale. Ed è proprio la radice narrativa, quella dell’opera omonima di Tom Rob Smith, successo di pubblico e critica, a strutturare lo scheletro del testo filmico, consentendo alla pellicola di guadagnare forza drammatica, tensione e credibilità rappresentativa attraverso ricostruzioni inappuntabili del contesto, dei costumi e del clima di terrore della Russia del tempo.

Il film trasporta nell’Unione Sovietica degli anni Cinquanta, quella che vive il tentativo di mettere in pratica l’ideologia stalinista, un fatto di cronaca realmente accaduto 30 anni più tardi: l’omicidio, tra il 1978 e il 1990 -data in cui, ormai cessato il clima del terrore, fu consentito l’arresto del colpevole-, di 53 donne e bambini da parte del serial killer ricordato come il Mostro di Rostov. Il film cala questa personalità distorta, vittima delle tragedie belliche e anello deviante all’interno della catena in apparenza perfettamente funzionante del regime, all’indomani del blocco orientale e dell’instaurarsi della Guerra Fredda e costruisce, in un’alternanza di panoramiche sul contesto storico e primi piani sulle vicende singolari dei suoi personaggi, un ritratto dal volto mostruoso del Paese.

Leo Demidov (Tom Hardy), prodotto ideale del Sistema Sovietico (è stato plasmato, essendo orfano, all’obbedienza), è una delle menti più brillanti dei servizi segreti. Eroe di guerra (in una scena iniziale che fa correre la memoria a Flags of our Fathers) e membro dell’MGB, viene sottoposto, senza saperlo, a una prova di fedeltà dal regime che, in cambio della sua rinuncia a qualsiasi legame affettivo (deve denunciare la moglie che lo ha sposato solo per paura, Raisa/Noomi Rapace), gli offrirebbe una delle cariche militari più alte. Deciso a non permettere che lo Stato si appropri anche della sua intimità, Leo sceglie l’esilio forzato e ripiega alla periferia dell’Impero, nella tetra e fangosa città industriale di Volsk dove, sotto la guida del capo della Polizia del luogo (Gary Oldman di cui qui si rimpiange decisamente la freddezza calcolata e impenetrabile de La Talpa), convince le autorità a interessarsi di un caso la cui indagine è ostacolata dal Governo, che ne nega l’accaduto: una serie di omicidi, nei pressi dei binari ferroviari, di 43 bambini.

Alla ricerca di un (non facile) bilanciamento tra vicenda storica, inquadramento del panorama umano, politico e morale, fatto di cronaca e racconto individuale, Child 44 riesce a consegnare allo spettatore un’immagine d’insieme che non risulta efficace nella resa quanto nelle intenzioni di partenza. Nonostante lo sforzo vistoso di rendere luoghi e spazi narrativi (evidente nell’antitesi tra lo sfarzo di Mosca e lo squallore di Volsk, nei costumi di scena e nell’attenzione agli arredi domestici), l’articolazione del testo risente degli spunti diegetici troppo numerosi e degli stili con cui si vuole punteggiare il ritmo del racconto. Se, in termini narrativi, la vicenda della coppia Hardy-Rapace (che qui ritorna a lavorare insieme dopo The Drop, con un’intesa felice) sarebbe stata in grado già da sola di corrispondere una descrizione esaustiva del contesto storico, dall’altra parte è l’accento sulla Storia stessa e sul clima plumbeo che il film vuole far emergere a impedire agli attori di sciogliere le briglie e di concedersi a una recitazione più fisica. Lo stesso Tom Hardy, a cui non manca nemmeno stavolta il fascino e il potenziale per esprimere a pieno il dramma di un ruolo che gli calza a pennello, appare a tratti costretto nella sua uniforme e mai pienamente libero di lanciarsi in una recitazione espressiva. In modo particolare l’accento cui gli attori sono costretti -una replica mai troppo efficace delle cadenze russe- avvalora questa idea di controllo e di rigore, che mina alla performance attoriale di cui risentono, soprattutto, Vincent Cassel e Joel Kinnaman. Va riconosciuto tuttavia al film il merito e lo sforzo di aver ricreato un clima storico che non si limita al puro aspetto formale e di aver fatto emergere, in un’epoca in cui il divieto di diffusione della pellicola in Russia fa tornare alla ribalta i fantasmi dell’oscurantismo su cui il film insiste –non ci sono crimini in Paradiso-, gli scheletri di un passato che troppo spesso è stato taciuto.

Mi piace: l’abile ricostruzione del contesto storico e delle atmosfere

Non mi piace: la sovrabbondanza di generi ed elementi diegetici con cui il film deve fare i conti per equilibrarsi

Consigliato a chi: ama il film storici e vuole una lettura del clima politico della Russia Sovietica

Voto: 3/5

© RIPRODUZIONE RISERVATA