Risale a ormai dieci anni fa l’esordio alla regia di Alex Garland, sceneggiatore londinese conosciuto fino ad allora per le sue collaborazioni con Danny Boyle. Ex Machina ha fatto poca fatica a imporsi come fenomeno della fantascienza low budget, così come il proprio autore come uno degli astri nascenti su cui puntare.
Nel corso della propria carriera come regista, pur esplorando diversi sottogeneri, si è sempre concentrato sul creare mondi e vicende parossistiche e inverosimili, ma sempre fortemente aderenti alla realtà di tutti i giorni, indagando spesso e volentieri sul significato di essere umani e sugli scontri interni dell’umanità stessa, in parte spaventata dalla propria irrefrenabile evoluzione. Le sue opere successive, Annientamento e Men, ma anche la sua incursione seriale Devs, affrontano questi argomenti.
Nemmeno Civil War, grande produzione targata A24 e possibile chiusura di questa parentesi dietro la macchina da presa di Garland (come da lui stesso affermato) si esime da questo impegno. La vicinanza con l’attualità qui è ancora più urlata: il film infatti immagina un ipotetico conflitto interno tra i due fronti politici statunitensi che ha ridotto in condizioni quasi post apocalittiche il paese. Uno sguarnito team di giornalisti, capitanati da Lee (Kirsten Dunst), parte da New York con l’intenzione di documentare la deposizione del Presidente degli Stati Uniti a Washington.
Dando forma a questa cautionary tale giunta agli occhi del pubblico giusto in tempo per far sì che non si avveri, Garland purtroppo utilizza un approccio estremamente superficiale, sia nella messa in scena che nella scrittura, riducendo questo quasi blockbuster a un diluito episodio di Black Mirror, in cui la satira e l’urgenza dell’avvertimento che si vuole lanciare diventano inefficaci.
Sul comparto sceneggiatura il problema fondamentale ad emergere, oltre a un worldbuilding a malapena accennato in un prologo sulla carta promettente, consiste in un’esplorazione abbozzata dei personaggi, ai quali viene fornita una backstory preriscaldata, che tantomeno giustifica la serie di discutibili scelte che andranno a prendere lungo lo svolgimento della narrazione. Anche qui l’appello a un’umanità lacerata è lampante, ma tale divisione viene tralasciata per procedere in un discorso semplificato da continui stereotipi.
Sicuramente il cast, dalla già citata Dunst fino a Wagner Moura e Cailee Spaeny, fanno del loro meglio con il materiale a disposizione. Ad emergere in particolare è Jesse Plemons, in una rapida apparizione che ruba immediatamente la scena ai protagonisti.
Dal punto di vista della messa in scena, invece, Civil War crea nella mente dello spettatore più dubbi e interrogativi ideologici non indifferenti. Le immagini proposte da Garland sono estremamente pulite e cristalline, confezionate per la consumazione di massa come si trattasse dell’ultimo popcorn movie di turno. Non si prende quasi mai un punto di vista autentico, con eventi di schiacciante brutalità come gli inserti presenti nell’incipit, mentre a dominare sono sequenze spettacolarizzate, configurate attraverso schemi e stilemi stantii e ravvisabili da decenni nel cinema mainstream statunitense.
Proprio questo aspetto dell’opera di Alex Garland pone chi guarda davanti a un cortocircuito non indifferente, proprio perché parte del centro tematico del film riguarda il distacco tra realtà e fotografo, ovvero gli impassibili protagonisti, quasi galvanizzati dalla possibilità di cristallizzare la Storia attraverso il loro obiettivo. La medesima distanza si genera tra il pubblico e le immagini belliche e sanguinolente che propone il film, smettendo quindi di avere una funzione di sensibilizzazione.
Civil War è quindi considerabile come un discreto passo falso per Garland, sicuramente mosso dai più lodevoli valori, ma che non riesce ad affrontare in maniera consona un argomento che mai come in questo periodo storico meritava una maggiore consapevolezza in termini di lecita messa in scena e doveroso approfondimento del contesto.
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