Cloud Atlas: la recensione di Gabriele Ferrari
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Cloud Atlas: la recensione di Gabriele Ferrari

Cloud Atlas: la recensione di Gabriele Ferrari

Bastano i titoli di testa di Cloud Atlas per capire che siamo di fronte a qualcosa di speciale, se non unico, nel panorama odierno: a fronte di tre registi dal curriculum impressionante (i due Wachowski e il Tom Tykwer di Lola corre e Profumo) e di un cast che comprende una buona fetta del meglio degli anni Novanta inglesi e americani (Tom Hanks, Hugh Grant, Hugo Weaving, Jim Broadbent, Susan Sarandon, Halle Berry…), tutto quel che vediamo nei primi cinque minuti di film sono nomi di case di produzione minori e di enti di vario genere che hanno finanziato la pellicola. Niente loghi di Paramount, Universal, Warner, Disney: Cloud Atlas è tecnicamente un film indipendente, probabilmente il più costoso della storia con i suoi 100-e-passa milioni di dollari di budget.

Sembra una considerazione oziosa, è in realtà fondamentale per approcciarsi nel modo giusto a un film ipertrofico, autoreferenziale, serioso e molto convinto dei suoi mezzi come Cloud Atlas. Slegati dai freni (creativi, di scrittura, di durata) imposti dalle major, Tykwer e i Wachowski lasciano libero corso alla propria fantasia, con l’intento dichiarato – fin troppo: abbondano voice-over e i famigerati “spiegoni” – di costruire un universo unitario in grado di connettere sei storie apparentemente distanti e scollegate tra loro. Dal passato coloniale a un lontano futuro post-apocalittico, attraverso il Novecento e i Duemila che verranno (una reinvenzione in chiave fluo del mondo di Blade Runner), con puntate nella Scozia dell’inizio del secolo scorso; sei vicende che spaziano dal privato al globale, da una storia d’amore omosessuale a una rivalità a base di tradimenti e avvelenamenti a un intrigo da cui dipende il futuro energetico dell’umanità: Cloud Atlas è strutturato come un film a episodi, con l’ambizione di tessere un fil rouge che li connetta tutti. Inutile approfondire i dettagli di ogni singola narrativa, basta sapere che in quasi tre ore di pellicola viene coperto praticamente ogni genere cinematografico mai esistito, dal melò alla commedia all’inglese passando per l’horror e il dramma in costume. Qualcosa funziona perfettamente (i due episodi prettamente sci-fi, nonostante uno dei due sia sostanzialmente una scopiazzatura del classico 2022 – I sopravvissuti), qualcos’altro un po’ meno, per le specifiche ci si affidi – anche – ai gusti del singolo.

Più interessante discutere dell’ordito generale, una ragnatela di destini, di volti che ritornano, di passioni che trascendono la vita del singolo per diventare storie d’amore universali. Maneggiata con estrema attenzione la trama del romanzo da cui il film è tratto (alla stesura della sceneggiatura ha collaborato lo stesso autore David Mitchell) per renderla più filmabile e meno intricata, il trio Wachowski/Tykwer si trova a giocare di rimandi visivi, sonori, concettuali per far passare il Grande Messaggio. Che è insieme forza e debolezza per Cloud Atlas: i più razionali e scettici difficilmente si faranno prendere da questa lunga predica su karma, reincarnazione, anima che trascende il corpo, il cui impatto è paradossalmente diminuito dai lunghi monologhi in voiceover che espongono con pedante precisione i concetti che dovrebbero bastare le storie stesse a trasmettere. Una tendenza al didascalismo che è figlia del più grande difetto di Cloud Atlas; e cioè che, per quanto si impegni a convincerci che «le nostre vite non sono le nostre, siamo legati agli altri, passato e presente», il filo che lega i sei episodi è molto più debole di quanto il film creda, e si riduce più che altro a un gioco di maschere e travestimenti – impressionante vedere Hugh Grant truccato da folletto verde o Hugo Weaving da sadica infermiera di un ospizio, ancora più impressionante non riconoscere metà dei volti tanto alta è la qualità del trucco, molto meno scoprire che oltre l’estetica c’è poco.

Al netto della banalità del tema e di una certa vacuità nell’architettura della storia, per la quale comunque va dato gran parte del demerito alla fonte letteraria, Cloud Atlas rimane comunque un film troppo coraggioso per non promuoverlo, seppur con riserva. Visivamente siamo su un altro pianeta, trucco e scenografie sono da Oscar e la CGI abbonda senza mai stuccare né disturbare. Le prove attoriali sono da applausi: Tom Hanks e Hugo Weaving da soli ripagano il prezzo del biglietto, Jim Sturgess e Ben Whishaw vanno necessariamente tenuti d’occhio, Doona Bae (che i più attenti ricorderanno in due capolavori come Mr. Vendetta e The Host) nei panni dell’androide-o-qualcosa-di-simile fa impallidire il Fassbender di Prometheus. E poi, soprattutto, c’è la voglia dei tre registi di esagerare, di aggiungere, gonfiare, allungare: una mossa coraggiosa che ha già regalato critiche e applausi in egual misura, e che suona come una celebrazione della creatività smisurata e fuori controllo dei Wachowski e dell’amore per l’estetizzazione e il melodramma di Tykwer. Una sorta di dito medio rivolto a Hollywood per un film che se fosse passato tra le mani di una major sarebbe stato tagliuzzato, accorciato e probabilmente snaturato. Cloud Atlas non è perfetto, e anzi è sorprendentemente ingenuo e naif. È però prodotto di una passione sincera e di un totale disinteresse per le regole del mercato: che crediate all’anima immortale e alla reincarnazione o meno, dovreste dargli una possibilità.

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Mi piace
Visivamente trionfale. Attori eccezionali, con menzione speciale per la coppia Hanks-Weaving. Almeno due episodi su sei sono da applausi e avrebbero retto da soli un intero film…

Non mi piace
… e d’altra parte almeno due episodi su sei sono da sbadigli e potevano tranquillamente essere accorciati se non tagliati. Inoltre, la natura così peculiare del progetto e la sua avversione a sottrarre, ridurre e asciugare potrebbe indurre sonnolenza.

Consigliato a chi
A chi è affascinato dalla new age, dalla reincarnazione, da una spiritualità panteistica figlia di Carlos Castaneda e della fascinazione tutta occidentale per le filosofie orientali. O anche a chi ama la buona fantascienza e se la sente di premiare il coraggio di un film indie da 100 milioni di dollari.

Voto: 3/5.

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