“Oceania/Moana” non poteva ch’essere un’incredibil’eccezione nell’universo ideologico disneyano ultratradizionalista e dunque, anzitutto, filofamiliarista. In quella straordinaria leggenda Maori i genitori non erano figure di sostegno bensì delle zavorre da cui emanciparsi pur di trovar’una salvezza per sé stessi m’anche per loro, vittime d’arcaici retaggi culturali. Sembrava quasi che i soggettisti avessero preso spunto dalla parentectomia di Bettelheim. Stavolta invece si torna a Casa come nell’altra ciofeca d'”Inside Out”, dov’il pilastro dell’equilibrio psichico consistev’appunto nei vincoli parentali. Ma il conformismo non si pone limiti, perciò via alla sagra delle furbate politically correct: se “Pocahontas” riabilitava i nativi nordamericani, “Coco” si schiera dalla parte dei Messicani non per una sincera poetic’artistica quanto per calcolo sia economico (i cattolici di lingua ispanica son’un bacino da mezzo miliardo di potenziali utenti paganti) sia geopolitico (“Birdman” e “Revenant” avrebbero mai vinto degl’Oscar se Iñárritu non fosse stato messicano? A maggior ragione, si può non parteggiare “contr’il Muro” nell’era trumpiana?). Lo strike però arriva sol’aggiungend’il pastrocchio fr’Halloween, oltretomba sciamanico e aldilà del cane/fides dantesco, e qui si tocca il parossismo di festività consumistica, “psichedelia al peyote degli spiriti-guida” e messe gregoriane in suffragio dei morti. La celebrazione del “Día de Muertos” è una bulimica Fantasylandia che ridicolizza i delir’immaginifici d’un Tim Burton. Coco, coca e cocchi di mamma.
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